Deus ex machina di Claudia Lo Blundo

Deus ex machina di Claudia Lo Blundo

Genere: Realismo magico

Non venite a dirmi che esiste un dio di giustizia.
Giustizia in questo mondo?
Se vi fosse io non starei qui a lamentarmene. Non starei a piangere sui miei problemi irrisolvibili, non starei a sperare che mi si rinnovi quell’altro aspetto della mia vita, quello che, per convenienza, poiché non so definirlo altrimenti o perché non so dargli un nome, io chiamo sogno. Eppure non è un sogno, vorrei poterlo spiegare a qualcuno, ma a chi? Ho provato a farlo e, a momenti, mi prendevano per pazza visionaria, anzi una mia collega, in verità molto carinamente, anche se rideva per farmi capire che stava prendendomi in giro, mi consigliò:
“Perché non scrivi le stramberie che racconti? Chissà, forse riusciresti a cambiare lavoro, anche se mi dispiacerebbe non averti più come vicina di sedia in questo maledetto call center”.
No, ormai ne sono convinta: non esiste un dio di giustizia. Forse, da qualche parte di questo infinito universo, nascosto dietro qualche buco nero, di sicuro esiste un deus ex machina che ha il compito di guidare l’esistenza di ciascuna creatura e, quando gli fa comodo, le fa intravedere una vita migliore: o le fa credere di intravedere una vita…diversa!
Non lo so. So che mi piacerebbe continuare a vivere quella vita!
Non devo necessariamente addormentarmi e sognare!
Non so come mi capiti, ma mi ritrovo proiettata in un luogo per me impossibile da calcare: sono sulla scena di un meraviglioso teatro, uno dei tanti in giro per il mondo. Credo di non sbagliare se affermo di essere stata in tutti i migliori teatri del mondo, oddio, anche in qualcuno meno importante, quelli, così chiamati, di provincia, dove però, sotto certi aspetti, il calore del pubblico che ti applaude e che vuole incontrarti, chissà perché mi gratifica molto più che non l’incontro del pubblico del grande Metropolitan di N.Y.
Cosa ci faccio in quei teatri? Ahaha. Certo, devo raccontarla tutta! In quei teatri, finalmente, canto: do la mia voce alle eroine che musicisti lirici hanno fatto vivere attraverso le parole di poeti e librettisti.
Credo di avere interpretato tutte le opere e mentre canto dimentico tutto: per me esistono soltanto la scena, il mio partner di scena, la musica.
In quel momento non esiste nulla attorno a me, Né passato né futuro; non ho bisogno di altro e sento che quella è la mia vera vita: interpretare, cogliere le sfumature della musica, delle parole, per farle rivivere da me mentre interpreto Tosca, Manon, La regina della notte, e tutte, tutte le eroine che al pubblico fanno conoscere quale alto grado può raggiungere l’amore, l’amore che io sto interpretando.
Il pubblico adorante viene dopo, dopo che la musica è finita, dopo che il solito groppone di commozione, finalmente può invadere la mia gola per poi lasciarsi andare in un singhiozzo liberatorio
Quella è la mia vita, la vita che mi fa felice!
Quando ho iniziato a parlare di questo strano fenomeno qualcuno, ricordo, ha buttato là una domanda. Non mi sembrava curiosità, pensavo fosse il desiderio di capire, ma in seguito ho compreso: certe domande erano fatte per capire sino a che punto io stessi vaneggiando o credessi veramente in quel che inventavo.
“Silvia, (è il mio nome) ma in quei momenti la tua famiglia, il tuo compagno, dove sono, te ne ricordi?”
“Non so, non li vedo, non ci penso, ma… di sicuro c’è qualcuno che mi aspetta a casa, che domanda! Certo, avrò anche una casa e familiari che fanno parte della mia vita. Io…non li vedo, perché sono al teatro, a cantare, Ecco, é come adesso: siamo qui al lavoro, ma le nostre famiglie, la nostra casa, insomma tutto quel che ci appartiene è fuori da queste mura!”
Era così naturale per me rispondere in quel modo, anzi, mi sembrava una risposta logica, ma invece nessuno mi ha mai creduto veramente. Di non essere creduta l’ho capito poco per volta, e allora ho deciso che non dovevo più parlare di questo strano fenomeno che, ancora adesso, non riesco a capire di cosa si tratti; non é un sogno, non é il trasporto della mia anima: é il trasporto di tutta me sessa, in un mondo del tutto simile al mio, o meglio in una realtà simile alla mia. Chi non ha visto qualche volta quei telefilm alla TV dove si parla di tele trasporto, di mondo parallelo? Beh, diciamo che a me succede una cosa del genere.
Allora la mia vita cambia, e sono, finalmente, felice perché è quella la vita che avrei voluto.
Poi, non so come accada, all’improvviso, mi ritrovo piombata nella vita in cui adesso mi ritrovo. Una vita fatta di lavori inappagati, di desideri inappagati, (avrete capito che tipo di indirizzo avrei voluto dare alla mia vita), di amori inappagati.
Già, gli amori!
Ecco il motivo per cui mi ritrovo qui a raccontare. A fare un bilancio della mia vita, Ma a chi sto parlando? Non c’è nessuno di fronte a me a raccogliere il suono delle mie parole mentre esprimono il dolore, la tristezza, il rammarico che ho in cuore.
Si è trattato di un sogno, ha sempre cercato di spiegarmi Marco, un sogno perché ho quel chiodo fisso in testa: fare la cantante lirica. Lo ha ripetuto anche poco fa, mentre, per l’ennesima volta, gli raccontavo in che teatro mi ero trovata a cantare. Ridendo come non aveva mai fatto, mi ha domandato quale personaggio avessi finito di interpretare.
Ho risposto: Liù
E lui, ironico: “Liù? E chi e?”
L’ho odiato in quel momento, ho odiato la sia indifferenza, la sua ignoranza nella quale ama crogiolarsi, la sua mancanza di affetto di comprensione. Ancora una volta avevo sperato che lui potesse comprendere che quella proiezione nascondeva il mio desiderio di cantare, lui, invece, ancora una volta, ha motteggiato un acuto da soprano e, poi, mi ha lasciato senza aggiungere altro e, come fa ormai da tempo, se ne è andato, è uscito. Da tempo continuo a ripetergli che per lui questa casa è diventata solo un albergo e da tempo mi risponde, beffardo: si, grazie a te è un albergo per pazzi.
Lui è uscito ed io non ho sopportato di rimanere da sola a casa. Così, perché le cose capitano sempre senza che tu ne vada in cerca, così l’ho visto. Stava abbracciato ad una ragazza, più giovane di me, più carina di me, lei deve avergli detto qualcosa e lui, le ha dato un lungo bacio. Poi, come se fosse stato richiamato dal mio sguardo, si è girato, mi ha visto: mi è sembrato un mostro sornione perché, invece di impallidire, di venire verso me e dire quelle parole di circostanza che si usano in simili momenti, a gesti mi ha fatto capire: tu sei matta! Ha portato l’indice della mano destra alla tempia: c’era poco da capire, tutto era chiaro! Per lui la storia con me era finita.
Solo in quel momento ho capito le sue assenze da casa, il suo dileggiarmi continuo. Tutto è stato chiaro!
Sono tornata a casa come una furia, per ragionare, o, meglio, non volevo ragionare. Volevo fare qualcosa, una di quelle cose che si vedono nei film che la TV trasmette, o che leggo nei giornali quando vado dal parrucchiere: una donna abbandonata butta tutto per aria, taglia a pezzetti i vestiti del suo lui traditore, oppure…oppure si toglie la vita per la disperazione di essere stata abbandonata. Ecco, ho deciso: gliela farò pagare con la mia morte e sarò il suo rimorso fin quando vivrà.
Ahah, vorrei essere li quando mi scoprirà morta, vorrei vedere con che anima tornerà ad abbracciare e sbaciucchiare la sua nuova fiamma.
Quando sono venuta in cucina mi chiedevo in che maniera mettere in pratica il mio pensiero. Ho aperto tutti i rubinetti della cucina a gas, ma ho subito capito che ci voleva molto tempo prima di raggiungere l’effetto desiderato. Io, invece ho fretta di chiudere questa storia. Ho deciso: dove si trova il mio coltello più grande e più affilato, quello che tengo sempre nascosto perché…non si sa mai! Eccolo con questo mi darò un bel colpo come quando canto Butterfly: farò karakiri, mi hanno detto che si dice così. Beh il coltello di scena è di plastica e la lama si ritrae, come quello che per carnevale usano i bambini travestiti da pirata.
Bbbrrr, come è lunga e affilata questa lama, chissà che dolore proverò. Ma, alla fin fine mi chiedo se non sia stupido uccidersi? Per cosa, infine. Per la disperazione? Ci si dovrebbe uccidere per amore, per coprire un amore, non perché un amore ti ha abbandonato. Sono confusa, continuo a rigirare questo coltello tra le mani, nel dubbio atroce: mi uccido per amore o per disperazione? Ma che senso ha vivere oramai. Tanto vale farla finita. Ma occorre trovare il coraggio e, io, non l’ho! Sono troppo disperata, arrabbiata. E se sbaglio mira?

*****

La folla, a Pechino, è assordante. In lontananza c’è il mio principe tanto amato nel silenzio della mia condizione di schiava. Accanto a me c’è il suo vecchio padre. Cosa vuole da me questa folla? Ha visto che ho parlato con il mio amato Calaf, un amore senza speranza, lo so, anche se gliel’ho appena confessato.
Ma che accade? Tutti gridano: un vocio incessante, fatto di paura ma anche di rabbia. Sono esterrefatta. Calaf mi ha pregato di occuparmi di suo padre; lo farò, gliel’ho promesso. Lo farò per amor suo, anche se lui ama la principessa gelida e senza cuore che si cela nel gran palazzo al di là di queste alte mura. La folla mi preme, ho paura! Ho paura, vorrei essere altrove, ma dove può andare una povera schiava come me. Dove potrei nascondermi per sfuggire a questa folla che stende verso di me i suoi pugni. Che strano ricordo mi viene alla mente: da piccola mi nascosi dentro un armadio intarsiato in vivaci colori che rappresentavano una parte della nostra millenaria storia cinese: uccelli, fiori, disegni intarsiati rendevano prezioso quel mobile, unico oggetto prezioso nella nostra povera casa. Nessuno doveva osare avvicinarsi o toccarlo. Invece una volta per gioco, entrai in quel mobile e mi ci chiusi dentro mentre i miei fratelli mi cercavano per gioco. Ad un tratto le pareti dell’armadio scomparvero e io mi trovai in un giardino bellissimo. Non riuscivo a credere ai mie occhi! C’erano fiori, uccelli, un laghetto: che magnifica visione, una meraviglia al confronto del modesto quartiere in cui abitavo. Quando mi accorsi di essere sola ebbi un attimo di paura, mi stropicciai gli occhi e, allora mi ritrovai di nuovo dentro l’armadio. Raccontai ai miei fratelli quel che mi era accaduto e mi dissero che ero una stupida che mi inventavo storie impossibili. Mah, in effetti, devo essere stata una tipa sempre strana. Adesso, forse, potrei provare a stropicciarmi gli occhi: forse la folla scomparirebbe e mi ritroverei nel palazzo del buon principe Calaf. Niente da fare è tutto vero. Forse sono pazza ha ragione Marco.. Ma…, cosa sto dicendo e…chi è Marco? Non sono pazza. Oppure si, se sono innamorata di Calaf: innamorata di un principe, senza alcuna speranza. Ma cosa gridano questi? Vogliono conoscere il nome del mio principe? Mai! Perché questa guardia mi ha afferrata, perché ha buttato a terra il mio povero vecchio. Ora capisco Mi tortureranno pur di farmi parlare, ma io mi sento debole, sfinita dal lungo errare. Non riuscirei a resistere al carnefice che mi metterebbe sotto tortura. Calaf, perdonami se lascerò tuo padre da solo, perdonami se do la mia inutile vita di schiava per la tua, perché per amore si può anche morire Addio principe amato, la morte diventa dolce quando è fatta per amore, e io, col mio amore ti salvo, anche se so che tu ami un‘altra.

* * * * *

Marco aveva avuto un attimo di ripensamento: lo aveva colpito l’angoscia che aveva letto negli occhi di Silvia Era riuscito a lasciare la sua nuova fiamma ed era tornato a casa.
Riversa a terra, in cucina, giaceva Silvia, vicino a lei, a terra si trovava un grosso coltello affilato che lui non aveva mai visto. Toccò la giovane pensando che fosse solo svenuta e con raccapriccio notò che era gelida. Il medico, chiamato in gran fretta non poté fare altro che costatarne la morte anche se un dubbio arrovellava il suo cervello: Continuava a domandare da quanto tempo giacesse li? Solo 10 minuti, continuava a rispondere Marco, forse anche meno. Ma il medico diceva che era impossibile. Nessuno poté toccare nulla. Giunse un commissario di polizia che riprese con le stesse domande già fatte dal medico e anche la risposta di Marco era sempre la stessa, Il medico gli credette solo quando uno dei negozianti vicini, un orologiaio, confermò di aver visto passare Silvia, che conosceva bene, nel tempo corrispondente all’orario dato da Marco; stava rientrando a casa ed era molto, molto agitata. Solo allora il medico stese la diagnosi: decesso per infarto, accaduto all’incirca verso le 11,05. Ma, a voce, il medico diagnosticò che quella morte era avvenuta chissà quanto tempo prima: spiegò che aveva avuto modo di vedere cadaveri mummificati dal tempo, e, se avesse potuto dare credito alla propria esperienza, avrebbe detto con sicurezza che quella morte era avvenuta diversi secoli prima.
Così come si trovava il corpo della povera Silvia fu adagiato sul letto e solo allora qualcuno si rese conto che indossava una stupenda vestaglia di bellissima fattura cinese. Chiuso in un dolore dal quale tuttavia cercava di prendere le distanze, solo allora Marco capì. E seppe che il senso di colpa per il rimpianto e la disperazione di Silvia, in qualunque delle sue vite lo avesse vissuto, non lo avrebbero mai più abbandonato.

30 Risposte a “Deus ex machina di Claudia Lo Blundo”

    1. purtroppo le votazioni si sono concluse il 22/3 alle ore 23:59

    1. purtroppo le votazioni si sono concluse il 22/3 alle ore 23:59

  1. Voto questo testo
    mi ha davvero affascinato nella scrittura, nell’ambiguità, brava Claudia!

  2. E’ denso di riflessioni e di spunti di vita vissuta…vale molto! Lo voto. Complimenti Claudia

  3. Ringrazio tutti per le belle considerazioni sul mio racconto e anche per i vostri voti!

  4. Una miriade di sensazioni, un’ esplosione di emozioni, un aggrovigliarsi di pensieri che mi hanno circumnavigato la mente e preso il cuore !
    Paola Marchi

  5. prosa fluida, scorrevole e ….coinvolgente. Vot testoo questo

  6. veramente un bel pezzo di vita, di riflessioni, di dolore e nel contempo rabbia… un pezzo completo e da leggere assolutamente!

  7. Narrazione fluida e coinvolgente. Desiderio di continuare a leggere per scoprire la fine del testo. Bello!!!vado a leggere gli altri…

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