Dietro quella porta di Claudia Lo Blundo

Dietro quella porta di Claudia Lo Blundo

Tema: Il peso di vivere

Pur sapendo che si trattava di un parto della propria fantasia, la visione di un cameriere che gli si inchinava dinanzi per offrirgli un bicchiere d’acqua e diceva: “calda con lo zucchero, signore” lo indispose.
Paolo non amava bere acqua, diceva che gli faceva male allo stomaco per cui, il primo pensiero appena sveglio fu che quella giornata iniziava male.
Si alzò di scatto e si diresse in cucina; mise una cialda nella caffettiera automatica e calcolando i minuti per la fuoriuscita del caffè andò in bagno. Lo specchio di fronte la porta gli rimandò la visione di un uomo cadente, con la barba vecchia di almeno tre giorni, i capelli arruffati. Meravigliato per la lunghezza della barba che radeva ogni mattino, si guardò meglio. Passò una mano sul volto, sistemò i capelli con le dita aperte a pettine poi si ricordò del caffè. “Porca…”; di corsa tornò in cucina mentre si diceva che non avrebbe dovuto lasciare la macchinetta incustodita; avrebbe dovuto farla aggiustare perché non funzionava bene e ogni tanto il getto dell’acqua non si bloccava, continuava a cadere dal tubicino e lui, ora, invece di chiudere il tasto off guardava inebetito: addio caffè, gli toccava asciugare tutto. Si riprese, chiuse il tasto, prese un’altra cialda mise un altro bicchierino e aspettò la fuoriuscita del caffè.
I suoi occhi si posarono sui vari post-it attaccati al frigo e sui pensili: comprare pane, comprare frutta, andare in lavanderia e così avanti. Li strappò: erano tutti vecchi. Stava per strappare l’ultimo, ma si fermò in tempo: telefonare a mamma.
Tentò di provare anche un solo lieve senso di colpa ma non vi riuscì, cosa aveva da dire alla madre? Sto bene! Tu? Stai bene?
La madre conosceva la sua vita, e lui non riusciva mai a chiamarla: al mattino no, non aveva il tempo, di giorno in ufficio non poteva, la sera… era troppo stanco; con il cellulare, in autobus lungo il tragitto? Già, per fare sentire agli altri le proprie cose, no, non se ne parlava nemmeno, e poi…cosa avrebbe potuto dirle?
Così i giorni passavano e lui non si decideva a fare quella telefonata, carezzò il foglietto, ma ritrasse subito la mano e si diede dello sciocco per aver fatto quel gesto
Prese il bicchierino con il caffè, bevve!
Puah! Aveva dimenticato lo zucchero.
Guardò l’orologio era in ritardo.
Si vestì, diede uno sguardo al cielo dalla finestra della camera da letto, che colore strano! Di certo avrebbe piovuto anche quel giorno!
Prese l’ombrello, la sua cartella da contabile e, mentre si dirigeva verso la porta d’ingresso, borbottò tra sé e sé qualcosa che risultò incomprensibile anche lui; il suo pensiero era contro la madre mentre pensava che sarebbe stato molto più comodo per lui abitare vicino all’ufficio invece che in quella villetta antidiluviana, lontana dal centro, che la madre, però, non decideva di vendere costringendolo a quel’andirivieni.
Aprì la porta d’ingresso mise fuori un piede pronto a scendere l’unico gradino che lo separava dal suolo del giardino, ma si fermò atterrito.
Attorno a sé tutto era bianco, avvolto in una nuvola consistente, una nebbia strana.
Rabbrividì: questione di un attimo!
Fulmineo rientrò in casa e chiuse la porta mentre il cuore gli batteva per una strana paura.
Si riprese dandosi del cretino. Perché? Non aveva mai visto la nebbia?
Riaprì la porta, guardò meglio: la nebbia era sempre li, ma ad altezza d’uomo: al di sopra poteva scorgere il cielo azzurro di un azzurro biancastro che gli procurò un senso di sgomento. Al di sopra della nebbia non vedeva nulla attorno a sé, si passò la mano sugli occhi, si diede del cretino, riaprì gli occhi e terrorizzato scappò dentro casa, chiuse la porta,…era malato?
Oltre il gradino di casa non c’era nulla!
Queste cose capitano dei film, si disse!
Guardò dallo spioncino: le case stavano li, anche gli alberelli del vialetto, che stupido!
Riaprì la porta!
Era un incubo!
Attorno a lui sopra, sotto, a destra a sinistra c’era solo l’azzurro biancastro del cielo.
Pensò che se fosse stato matto non avrebbe avuto il dubbio di esserlo; allora stava male o qualcosa era accaduto al mondo o a lui, riguardò dallo spioncino e…non vide nulla.
Pensò di fare l’unica cosa intelligente che gli venisse in mente.
Accese il televisore, accese il computer.
Zapping, zapping, zapping: diamine tutti apparivano tranquilli, parlavano al solito di guerre, la fame, la politica, l’intervista ad una miss, le vendite promozionali, un film.
Andò su Google, aprì i vari link, lesse le notizie sul mondo simili a quelle sentita alla TV, controllò gli orari dei treni e guardò la mappa del mondo, anche la sua città, trasmessa in tempo reale dal satellite: tutto procedeva in maniera normale.
Allora decise di mettersi in contatto con l’ufficio. Il suo facebook gli dava un segnale negativo, mandò una e mail, chiese l’accesso a vari link, anche quelli in cui giocava a poker nei momenti di pausa in ufficio quando i suoi colleghi andavano al bar a scimmiottare di cose inutili o quando andavano a mensa e lui preferiva mangiare un toast prelevato dalla macchinetta: nulla non riusciva ad avere alcun accesso.
Si diede dello stupido mentre un sorriso fiducioso segnò le sue labbra!
Aveva il cellulare!
Ecco c’era la linea!
Compose il numero del collega di stanza ma… il cellulare non squillava più. Compose altri numeri, inutilmente. Com’era possibile, eppure il cellulare funzionava!
Non sapeva se essere spaventato. Capiva di essere dentro una storia strana, un incubo, ma era troppo pragmatico per credere agli incubi, sperò solo che qualcuno lo cercasse. Sedette in poltrona con il telecomando in mano: già, ma chi avrebbe potuto cercarlo?
Il suo collega di stanza avrebbe dovuto preoccuparsi per la sua assenza improvvisa?
“Ma no – si disse – figuriamoci se quel bell’imbusto pensa a me?” Così fresco della sua laurea in commercio gli aveva sempre dato l’idea di una iena pronta a gettarsi addosso ad una carogna e la carogna sarebbe stato lui, Paolo: il giorno in cui gli sarebbe accaduto qualcosa, quel deficiente esaltato si sarebbe affrettato ad occupare il posto che lui, da 15 anni, occupava nella ditta.
Forse la sua assenza sarebbe stata notata da qualcuna delle impiegate, che lo guardavano attraverso il corridoio di vetro quando andavano e venivano portando fogli o cartelle: pretesti per fare la passerella davanti ai colleghi scapoli e a quei due già divorziati.
Aveva pensato sovente che qualcuna di loro doveva aver sperato di accalappiarlo, non era poi un uomo da buttare via e aveva un bel posto, un buono stipendio.
Non le conosceva in particolare, le guardava quasi fossero un blocco di gambe svettanti sui trampoli dei loro tacchi, oppure quando passavano silenziose facendo frusciare i pantaloni.
Aveva sempre pensato che per qualcuna di loro il matrimonio con il contabile di una ditta non sarebbe stata una cattiva sistemazione per il futuro: avrebbe messo al mondo un paio di ragazzini, il che l’avrebbe costretta a lunghi periodi di assenza dal lavoro, poi magari un giorno gli avrebbe detto che era stanca, stressata e non avrebbe più ripreso il lavoro e a lui sarebbe toccato sgobbare per loro due e per i figli.
Così aveva deciso che l’unica difesa alla visione di quel temibile futuro fosse quella di non guardarle, di non rivolgere loro la parola se non per questioni strettamente legate all’ufficio e non gli interessava affatto se di lui avrebbero detto quel che si suol dire in questi casi: è un orso!
Lui preferiva essere considerato un orso piuttosto che una preda e, quando le vedeva passare, rideva al pensiero che lui era più furbo di quelle donnette, così come rideva al pensiero delle loro eventuali intenzioni destinate a naufragare nel nulla.
Seduto in poltrona eliminò anche la possibilità che una di quelle ragazze potesse stare in pensiero per la sua assenza. Nemmeno il capo reparto avrebbe detto qualcosa per la sua improvvisa assenza: in tutti quegli anni di lavoro si era assentato solo rare volte e, se non aveva potuto comunicarlo subito era stato dispensato dal farlo perché godeva di fama di lavoratore: una giustificazione all’assenza, anche se in ritardo, gli aveva detto una volta senza dargli modo di spiegare, andava sempre bene.
Pensò che avrebbe dovuto alzarsi, riaprire la porta e vedere ancora là fuori, ma una sorta di paura, anche se riteneva che fosse irrazionale, gli aveva reso le gambe pesanti come due blocchi.
Tentò di sollevarsi dalla poltrona facendo leva sui braccioli, guardò il cielo dalla finestra: no quel sinistro biancore azzurrino del cielo era ancora li.
Riprese a fare zapping, la vita si svolgeva nella classica routine dentro quella scatola di 28 pollici; ora si parlava di malattie, passava la striscia con un numero telefonico: per parlare con il dr. Mosca telefonate in diretta: Pensò: è la mia salvezza! Il cellulare dava il segnale: fiducioso compose il numero, nulla! Come prima, la risposta era un silenzio che ai suoi occhi si presentava come un buco nero senza fondo che non gli permetteva di far arrivare la propria voce.
Era tagliato fuori dal mondo!
Pensò che se questo fatto strano fosse continuato per giorni lui avrebbe finito con il morire di fame.
Era tagliato fuori dal mondo per uno strano sortilegio: riusciva a pensare solo a questo.
Gli venne in mente che il lavoro si sarebbe ammucchiato sul proprio tavolo e quando sarebbe tornato, se…! Avrebbe trovato tanto arretrato da sbrigare e avrebbe dovuto chiedere un aiuto, sarebbe stato difficile per lui far capire al capo contabile cosa gli era accaduto, lo avrebbe preso per pazzo oppure avrebbe creduto che avesse fatto il furbo.
Si irritò con il capo contabile! Come si permetteva di pensare così! Cosa ne sapeva il capo contabile di lui? Lui non avrebbe mai fatto il furbo, era sempre stata una persona onesta, corretta con tutti, si faceva i fatti propri: accadevano tante lamentele in ditta, tante critiche e lui aveva sempre evitato che altri potessero criticarlo per qualcosa. Aveva vissuto sempre una vita quasi monastica, se ne rendeva conto mentre la TV trasmetteva la visione di una guerriglia cittadina: pur di non trovarsi in mezzo a problemi che non lo riguardavano aveva sempre camminato con gli occhi a terra, aveva evitato i luoghi affollati e quelli solitari. La sua vita era l’ufficio, le sue carte, arrivare alla fine dell’orario e, nel tornare a casa, potersi dire che aveva fatto il proprio dovere fino in fondo.
Non gli era mai interessato quel che riguardava gli altri e assumeva un atteggiamento fatalista su quel che accadeva: se quella era la vita lui non poteva farci nulla! Così le notizie gli scivolavano addosso, del resto,e per conseguenza non aveva mai permesso a chiunque di entrare nella propria vita.
Già, ma ora?
Il suo pensiero andò ai vicini di casa ai quali, occhi bassi, rivolgeva sempre un frettoloso buon giorno o buona sera che non poteva dare adito ad una qualunque forma di conversazione.
Si sorprese a domandarsi chi fossero coloro che abitavano nelle villette costruite di recente e adiacenti alla sua.
In una sorta di stato di torpore mentale non seguiva più le immagini televisive, si ritrovò a rimpiangere di non trovarsi in ufficio e si domandò cosa mai stessero facendo i suoi colleghi a quell’ora, si, perché ormai era sicuro che soltanto lui era stato catapultato in quel mondo strano fuori dalla terra, chissà, forse in un mondo parallelo.
Gli sarebbe piaciuto parlare di questa esperienza al caporeparto, al suo giovane collega di stanza, anche a quella brunetta che passava per il corridoio sempre con passo frettoloso, anche lei con gli occhi bassi o fissi in un punto indefinito lontano da sé: andava e veniva sempre con, in braccio, pacchi di carte. Ricordò che una volta i loro sguardi si erano incrociati ed entrambi, quasi in una gara di velocità, vergognosi di essere stati scoperti in quello sguardo, avevano subito abbassato le palpebre, lui era tornato ad isolarsi nei propri numeri. Quella brunetta era sempre seria: si domandò se sarebbe riuscito a farla sorridere qualora avesse potuto raccontarle questa straordinaria esperienza. Si, perché iniziava a non avere più paura di quel che gli accadeva attorno, più passava il tempo e più si convinceva di essere stato, forse, fortunato, catapultato in un’avventura nuova, di quelle che leggi sui libri o vedi al cinema.
Le gambe non erano più due massi di pietra, li mosse con circospezione e, di nuovo poggiandosi sui braccioli della poltrona, guardò: il cielo era ancora li!
L’euforia di un momento prima passò dalla sua mente, il suo sguardo rivolto al cielo si fece apprensivo: si, va bene vivere un’avventura straordinaria, trovarsi in una dimensione extraterrestre, extrasensoriale, extra di qualunque cazzata, ma lui cosa avrebbe fatto?
Tutto quel che si era detto sulla possibilità di raccontare quei momenti svanì in una bolla di paura che poco per volta lo circondò, lo immobilizzo, lo fece precipitare in un’ansia che, a misurarla, gli sembrò più profonda di quel buco nero che aveva creduto di vedere all’inizio. Allora capì una semplice cosa: era solo!
Era solo, sarebbe rimasto solo, forse sarebbe morto solo e nessuno avrebbe saputo nulla di lui, anzi nessuno si sarebbe interessato di lui. Nessuno, perché lui non aveva permesso ad alcuno di interessarsi di lui, di preoccuparsi.
Come poteva pensare che adesso le cose sarebbero potute cambiare? Forse avrebbero parlato di lui in maniera infastidita, avrebbero detto di lui quello che altre volte lui aveva mormorato, pur se a denti stretti: ‘Ma si, che vuoi che me ne importi!’
Avrebbero detto così?
Si alzò senza rendersene conto: doveva andare, riaprire la porta di casa, voleva vedere, non poteva rimanere inoperoso.
Passò davanti l’angolo cucina vide il biglietto attaccato al frigo.’Telefonare a mamma’.
Mamma! Ecco chi avrebbe avuto un pensiero per lui, sua madre!
Si sarebbe preoccupata non sentendolo al telefono: ma cadde seduto su una sedia. No, nemmeno sua madre avrebbe pensato di cercarlo. Lei era abituata ai suoi lunghi silenzi, viveva di certo tranquilla e forse quando avrebbe deciso di telefonargli sarebbe stato troppo tardi.
“ Che cosa buffa – pensò – ho sempre creduto di farcela da solo, mi dava fastidio tutto quel parlottare, ridere, criticare, raccontare, il sorriso che credevo falso, gli abbracci nei quali temevo si nascondessero pugnalate, gli amori che avevano come fine un interesse; volevo essere libero, io con me stesso! Ed ecco ora vorrei almeno un canarino al quale dire cip cip per sentirmi ripetere cip cip.”
A che serve vivere, forse è meglio farla finita, scoprire subito cosa c’é fuori, dietro quella porta alla quale nessuno ha mai bussato e nessuno busserà più, tanto valer farla finita.”
Apri la porta, corse verso fuori e…rotolò a terra.
Passava il solito vicino di tutte le mattine alla stessa ora, che dopo un rapido sguardo sorpreso stava tirando dritto, ma una voce innaturale, quella di Paolo, lo bloccò.
“Per favore, mi scusi, può darmi una mano?”

28 Risposte a “Dietro quella porta di Claudia Lo Blundo”

  1. Ringrazio tutti voi cari amici che avete votato ed avete espresso bei giudizi. Grazie.

  2. Bel racconto, lineare e scritto molto bene. Interessante anche l’approccio in sé a questo tema. Insomma: bravissima!
    Voto questo testo

  3. voto questo ytesto. E’ bello come tutti i racconti di Claudia, bello e intenso. Colora la giornata. Non si dimentica facilmente.

  4. Voto questo…fa riflettere su ciò che siamo diventati e cosa dovremmo fare. Molto bello, complimenti.

  5. Voto questo pezzo perchè fa riflettere : tutti abbiamo bisogno uno dell’altro e isolarsi non fa bene a nessuno. Brava amica mia.

  6. Voto questo testo.
    Fa riflettere sull’individualismo sfrenato dell’oggi.
    Brava Claudia!

  7. Voto questo testo
    Un bel racconto, Claudia con la suabravura ci porta a riflettere sulla negatività di certi comportamenti e atteggiamenti mentali che finiscono col diventare una prigione

  8. Lo voto. Ma che tristezza dà quella porta……dietro la quale nessuno bussava!!!!!!

  9. voto questo testo
    Molto bello, come solito di Claudia, brava!!

  10. voto questo testo
    Le nebbie del cuore sono le peggiori di tutte, molto significativa, mi piace.

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