Schianto, storia di un cambiamento di Ronni Corbo

Diceva di chiamarsi Raissa, professione ballerina di lap-dance, nella realtà una gran fica. Era rumena come il novanta per cento delle ballerine di quel tipo di locali, non chiedetemi il perché, sono fatti. Quel locale aveva appena aperto alle porte del paese e fu subito un successo, forse per le ragazze a dir poco splendide o per il semplice fatto che una novità è pur sempre una novità. Avevo cominciato a frequentarlo con gli amici nei fine settimana, non sempre, diciamo un paio di volte al mese, in quei posti il divertimento costa caro, molto caro. Ma ogni volta che entravo lei era lì, sul lungo palco a ferro di cavallo, al solito palo proprio dietro al bancone del bar dove mi potevo godere il suo corpo ballare bevendo cocktails in quantità industriale. Ingoiavo di tutto e più forte era il cocktail più la desideravo. Agli inizi non fu subito una gran cosa, faceva la timida, ma col passare del tempo, un privé dopo l’altro, si scioglieva sempre di più e il divertimento aumentava e i nostri incontri nei salottini privati diventavano sempre più caldi, molto caldi. Avevo cominciato ad andare al locale due o tre volte alla settimana e lei era sempre lì che mi aspettava, appena entravo mi saltava addosso con quel suo corpo morbido e perfetto e le danze avevano inizio. Via di corsa nei privé, tutto il resto non esisteva più. Bevevo sempre molto, le notti diventavano sempre più lunghe e a volte capitava dormissi solo un paio d’ore prima di andare al lavoro. Ma stringevo i denti e lottavo contro la stanchezza. Avevo un gran fisico, ero abituato a certi sforzi. Non guardavo in faccia nessuno quando entravo nel locale, non una gran perdita, c’erano solo uomini falliti con matrimoni altrettanto falliti, le loro facce di cartone mi mettevano tristezza, quindi sguardo dritto davanti a me, solo Raissa meritava di essere adorata. I mesi passarono e gli incontri divennero sempre più frequenti, lei e niente più nella mia testa. O quasi. Già! C’era l’Inter di Mancini che spadroneggiava in campionato. L’unica cosa che riusciva a distrarmi da quel culo bello da impazzire era l’Inter, solo i gol dei neroazzurri catturavano la mia attenzione strappandomi dalle cosce carnose e lisce di Raissa. Da un sogno all’altro, da un godere all’altro. Sì perché è solo una leggenda che nei privé non si possa “fare niente”, solo per la legge è così, ma la legge, si sa, è fatta dagli uomini ed è supervisionata da degli uomini. Se poi questi tutori della legge frequentano i night club è ovvio che non possano rimanere indefferenti a tutte quelle ragazze, a quelle gambe, a quelle tette che saltellando allegramente gli passano difianco sfiorandoli e lasciando un’intrigante scìa di dolce profumo. Così il gioco è fatto: i poliziotti e i finanzieri godono di “trattamenti speciali” e le ragazze possono fare ciò che vogliono senza paura di essere cacciate dal loro capo in caso venissero sorprese in atteggiamenti troppo “calorosi” con un cliente. Un tacito accordo per il bene comune. Bèh, fatto sta che le serate con Raissa erano ormai diventate routine, i soldi che spendevo non li contavo nemmeno più, era una cosa passata in secondo piano. Lasciavo il locale alla chiusura, alle quattro passate e poi al lavoro completamente rimbambito o ancora ubriaco. Gli altri non venivano più al night, li avevo persi di vista. “Cazzi loro”, mi dicevo “non sanno godersi la vita quegli sfigati!” E invece ero io ad essere caduto in un circolo mortale dal quale avrei dovuto stare alla larga. Ero fuori controllo. Alcool e Raissa mi stavano risucchiando nelle profondità della notte, nel buio più nero, verso qualcosa che tutto era tranne che vita. E venne quel maledetto giorno, l’ultima domenica di campionato, e l’Inter vinse quel fottuto campionato. Già nel pomeriggio cominciai a festeggiare, birra e vino come se piovesse senza alcun ritegno, a più non posso. Ore e ore con bottiglie in mano e urlando a squarciagola dapprima canti da stadio e via via cose sempre più insensate. Venne sera e arrivò l’ora di andare da Raissa. Mi presentai al locale con indosso ancora la maglia dell’Inter, ero sudato e ubriaco fradicio. Lei mi sorrise, io estrassi il bancomat e così venne l’alba. Il mio turno al lavoro cominciava alle sei di mattina. Lasciai Raissa alle quattro e mezza passate. Ridotto a uno straccio, nemmeno più felice, non connettevo più, in tilt come un flipper preso a calci. In qualche modo arrivai a casa, parcheggiai un po’ in mezzo alla strada e non so come mi coricai nel letto credendo di potermi riprendere in una mezzoretta. Impossibile. Vennero le cinque, poi le cinque e venti e dovetti alzarmi e andare al lavoro. Dodici chilometri, quindici minuti scarsi per arrivare. Accesi il motore, misi la prima e partii. Quella mattina al lavoro non mi videro. A metà strada c’era una rotonda ma mi addormentai qualche decina di metri prima e ci finii sopra con la macchina. Un gran casino, venni sballottato nell’abitacolo come un pupazzo, una ruota si staccò e se ne andò per la propria strada poi più niente, solo dolore, un gran dolore. Rimasi in ospedale per due settimane e quando uscii venni a sapere che Raissa aveva abbandonato il lavoro. Io comunque avrei abbandonato lei. E l’alcool.