Le mie ortensie di Elisabetta Bagli

Stamattina si è svegliata presto. Un misto di ansia e gioia ha mosso tutti i suoi gesti: ha fatto il caffè e per sbaglio ha versato un po’ di zucchero nel lavandino. Non le è importato. Il giornale era ancora sul tavolo e quando si è girata per prenderlo ha alzato gli occhi sulla finestra e ha visto la neve. Si è avvicinata al vetro: una pioggia gelata, bianca, cadeva nel cortile a fiocchi spessi. Non è riuscita a smettere di guardare.
Qualcosa ha cominciato a sciogliersi dentro di lei e a scorrerle lungo le braccia, le gambe. Un po’ alla volta tutto è diventato nuovo, anche lei. E non è che non abbia sentito il frastuono che viene dall’altra stanza. Solo, non vuole muoversi, andare di là.
Si sente rinata ed è contenta di averlo fatto.

Apre la finestra, mette le sue mani fuori. Vuole avere un immediato contatto con la neve. La vuole sentire sciogliersi sulla sua pelle calda, stabilire con lei quel rapporto cenestetico come fa con tutte le cose, per sentirle, per sapere, con la percezione tattile che tanto ama, che esistono, sono reali. Vuole sentire l’odore del bianco, quell’odore tipico dell’aria pulita, rarefatta. Vuole farlo penetrare nelle sue narici, sentirlo scivolare nella sua anima per purificarla, per essere finalmente nuova. Ha voglia di scendere, di giocare, di rotolarsi sulla neve, di ritornare bambina. Ha bisogno di osservare quel miracolo con gli occhi innocenti dei bimbi. Sa che non sarà possibile rivivere quei momenti se non nei ricordi. Sa che nulla potrà mai essere uguale a prima. Ora lei è diversa. Le circostanze e i luoghi sono diversi. Ma il ricordo dello stupore provato quando da bambina aveva visto la neve per la prima volta a Roma, la sua città, la sta aiutando a capire che la decisione presa è quella giusta.
Dal quattordicesimo piano del suo appartamento a Madrid, Sandra osserva uno spettacolo unico. La città sembra ancora dormire. Tutto è calmo mentre la neve continua a scendere, silenziosa. I tetti delle case, delle macchine, le panchine, le moto assumono una nuova luce. Gli alberi, le siepi, gli arbusti, che ha sempre visto eretti, piano piano, iniziano a piegarsi sotto il peso di quel manto bianco. Ora sembrano piangere.
Un’immagine che la porta di nuovo al passato. Ricorda le ortensie del giardino condominiale sotto casa sua, a Roma. Era un vero spettacolo osservarle dall’alto del suo balcone al quarto piano. In primavera, si coloravano di viola e fucsia. La loro visione rallegrava inconsapevolmente le sue giornate. In quel gennaio di tanti anni fa’, quando vennero sorprese dalle neve, si stavano timidamente preparando alla fioritura. Avevano piccoli boccioli verdi, in attesa di aprirsi e di cambiare colore. Anche quegli arbusti vivi si erano dovuti inchinare alla neve. Ora, dopo tanto tempo, riflette sulle sue ortensie, su quanto abbiano accompagnato la sua vita, su come siano state testimoni silenziose delle sue trasformazioni nel ciclo vitale. Fino al grande salto. Fin quando, sempre avvolte nel loro mutismo, l’hanno vista varcare il portone di casa per andare incontro alla sua nuova vita di donna.
Ora Sandra vuole scendere, andare al parco vicino casa sua, il Retiro, toccare la neve, le piante, gli alberi. Partecipare. Ha voglia di ridere, di essere felice, di avere un’altra opportunità. Un forte desiderio di cambiare, di essere nuova.

“Mamma, mamma! C’è la neve! Usciamo, vero? Andiamo al Retiro!” dice con tono insistente sua figlia, mentre Luis cerca di ricomporsi dopo essere stato tirato giù dal letto da quell’uragano di Cristina. Ecco spiegato il trambusto. Sandra non ne aveva dubbi. Per questo non si era allarmata. Per questo continua tranquillamente ad essere incollata alla finestra della cucina, osservando l’incessante pioggia di neve diventata tempesta, ormai. Riflette. Pensa alle bufere, sempre meravigliose, che fanno apprezzare quel senso di sicurezza quando si guardano da un posto caldo e riparato. Si finisce per amare di più ciò che si ha. Aiutano a misurarsi con se stessi. Se si è al centro di una bufera la si odia e nel contempo la si ama, perché si ha la speranza che porterà qualcosa di positivo, una volta terminata.
Sandra voleva cambiare.
Luis, eccitato all’idea di giocare con le palle di neve insieme a Mateo, ripete la stessa cantilena della sorella, come un disco di vinile rigato che s’inceppa con la puntina. Sandra continua ad osservare Madrid. È bellissima. Non è Roma. Non potrà mai essere la sua mamma, anche se l’ha accolta come una figlia. Ma è qui il suo presente e il suo futuro. Lo vede osservando gli occhi felici dei suoi figli.
Un abbraccio ai suoi due gioielli. Uno slancio d’amore eterno e una lacrima che scende giù rigandole il volto. “Sì, ho preso la decisione giusta”, pensa fra sé e sé. E con un grande sorriso inizia a tirar fuori, insieme a Cristina e a Luis, i doposci, i piumoni, i cappellini, le sciarpe e i guanti. E via, all’avventura sulla neve di Madrid!
“Mamma, la macchinetta!”, grida Cristina mentre Sandra sta per chiudere la porta. “Dai su, non è importante! Andiamo!” replica la mamma. Ma vedendo il volto triste dei suoi piccoli entra dentro casa alla ricerca della macchinetta fotografica, chiude la porta e chiama l’ascensore.
“Come posso spiegare a Cristina che per certe cose le fotografie non servono? Alcune non si possono fotografare. Si sentono. Rimangono chiuse in un cassetto, là, in fondo al cuore. Magari non ci pensi più. Magari non ci hai mai pensato, le hai solo sentite e non sai quanto sono parte di te, fino a quando una sensazione nuova, improvvisa le fa riaffiorare e ti accorgi che già la conoscevi. Magari ti rendi conto che era proprio quello di cui avevi bisogno per capire te stessa. E, poi, non si può di certo immortalare la pura felicità che sanno trovare i bambini nelle piccole cose. Osservando un fiore, un animale che gioca, prendendo una pala e un secchiello al mare per fare i castelli di sabbia che un secondo dopo vengono distrutti da un’onda, loro sono contenti. Noi adulti, troppo spesso, consideriamo tutto ciò una perdita di tempo e ci dimentichiamo di quanto, invece, possa essere meraviglioso godere di ciò che abbiamo senza contaminazioni esterne. Cristina e Luis vivono ancora nell’innocenza. Sanno ridere, amare ed amarsi spensieratamente”.
Sandra osserva con tenerezza i suoi figli mentre si dirigono tutti verso il parco. Prendono la neve per terra, l’appallottolano ed iniziano la loro battaglia. Tirano palle di neve a lei e a qualche passante. Sandra risponde divertita. “Mi ci voleva la neve”, pensa. “Non sapevo di desiderarla così tanto…”

Una leggera contrazione del suo stomaco. Inizia il suo amaro viaggio nel passato.
“La mia adolescenza. Quella necessità di piacere ad ogni costo, di volere un ragazzo, di essere desiderata, di essere bella, perfetta, eternamente giovane. Quella voglia di seguire i modelli imposti dalla società. Quel corpo che non mi dava piacere, goffo, grasso, che non amavo, che gli altri non amavano. I primi sintomi appena identificabili della malattia. Era divertente gettare la merenda nei rifiuti, quell’altalena tra il non toccare cibo e l’ingurgitare a dismisura qualsiasi cosa mi venisse a mano per poi vomitare. Provocarmi il vomito mi faceva star bene. Mi sentivo pulita, rinata. Avevo paura di perdere il controllo di me stessa, il terrore di aumentare di peso. Ero irritabile, iperattiva. Sentivo la pressione della mia famiglia, dei miei amici che mi volevano far capire ciò che non volevo capire. Stavo dimagrendo a vista d’occhio. La depressione e la paura di mia madre. I tour-de-force ai quali mi costringeva mio padre da medici e psicologi. Non c’era verso. Io continuavo a sentirmi sempre più grassa. Soffrivo della tipica distorsione dell’immagine corporale della malattia che dicevo di non avere. Sono sicura che anche le mie ortensie vedevano che stavo male, che soffrissero insieme a tutti coloro che mi volevano bene. Ma non potevano aiutarmi. Nessuno poteva. Solo io potevo. All’improvviso Sonia, la cugina di una mia amica, morí per la mia stessa malattia. Mi si aprirono gli occhi. Da lí il cammino in salita. Le analisi, gli ospedali, le medicine, il mio lento recupero, l’amore di Manuel, la mia nuova vita a Madrid. La gioia di avere due bambini meravigliosi a cui dedicare tutta me stessa. Il contrappasso della solitudine per la costante assenza di mio marito per lavoro.
Manuel è partito da due giorni. Deve stare fuori due settimane, questa volta. Troppo. Ho accettato questa situazione per amore. Pensavo di essere forte, di potercela fare. Ieri, un’altra interminabile notte, sola. Volevo iniziare di nuovo quel percorso. Davanti allo specchio, ho visto i solchi delle mie rughe, la mia pelle, una volta rigogliosa e senza macchie, appassita, priva di vita, con un cloasma che dopo le gravidanze non accenna ad andarsene. Perché comprare creme, andare a Pilates, condurre una vita sana alimentandomi in modo corretto, se poi il risultato è questo? Ancora dieci chili in più dal matrimonio. Ancora non sono la Sandra che voglio.
Ieri notte, per un momento, mi sono sentita morire, ho sentito che l’unica soluzione ai miei problemi era chiudermi in bagno, aprire il water, chinare la testa, mettere l’indice e il medio della mia mano destra in gola fino a toccare l’ugula. La tentazione di provocarmi il vomito era forte. Non mi sono dimenticata di quella sensazione liberatoria, purificante. Ma non l’ho fatto. Oggi più che mai ho capito il perché.
Ho un marito che mi ama, che ha curato pazientemente la mia anima malata, che mi è stato vicino con forza e dedizione. Ci sono le mie persone lontane e vicine che mi amano e che continuano a curarmi insieme al ricordo delle mie ortensie e della neve di Roma. C’è il presente che mi vede rotolare spensierata come una bambina sulla neve di Madrid, insieme ai miei figli. Vedo la neve attraverso i loro candidi occhi. Sono viva, completamente immersa in quel ghiaccio caldo che mi ha fatto rinascere”.

Stamattina si è svegliata presto. Un misto di ansia e gioia ha mosso tutti i suoi gesti: ha fatto il caffè e per sbaglio ha versato un po’ di zucchero nel lavandino. Non le è importato. Il giornale era ancora sul tavolo e quando si è girata per prenderlo ha alzato gli occhi sulla finestra e ha visto la neve. Si è avvicinata al vetro: una pioggia gelata, bianca, cadeva nel cortile a fiocchi spessi. Non è riuscita a smettere di guardare.
Qualcosa ha cominciato a sciogliersi dentro di lei e a scorrerle lungo le braccia, le gambe. Un po’ alla volta tutto è diventato nuovo, anche lei. E non è che non abbia sentito il frastuono che viene dall’altra stanza. Solo, non vuole muoversi, andare di là.
Si sente rinata ed è contenta di averlo fatto.

Apre la finestra, mette le sue mani fuori. Vuole avere un immediato contatto con la neve. La vuole sentire sciogliersi sulla sua pelle calda, stabilire con lei quel rapporto cenestetico come fa con tutte le cose, per sentirle, per sapere, con la percezione tattile che tanto ama, che esistono, sono reali. Vuole sentire l’odore del bianco, quell’odore tipico dell’aria pulita, rarefatta. Vuole farlo penetrare nelle sue narici, sentirlo scivolare nella sua anima per purificarla, per essere finalmente nuova. Ha voglia di scendere, di giocare, di rotolarsi sulla neve, di ritornare bambina. Ha bisogno di osservare quel miracolo con gli occhi innocenti dei bimbi. Sa che non sarà possibile rivivere quei momenti se non nei ricordi. Sa che nulla potrà mai essere uguale a prima. Ora lei è diversa. Le circostanze e i luoghi sono diversi. Ma il ricordo dello stupore provato quando da bambina aveva visto la neve per la prima volta a Roma, la sua città, la sta aiutando a capire che la decisione presa è quella giusta.
Dal quattordicesimo piano del suo appartamento a Madrid, Sandra osserva uno spettacolo unico. La città sembra ancora dormire. Tutto è calmo mentre la neve continua a scendere, silenziosa. I tetti delle case, delle macchine, le panchine, le moto assumono una nuova luce. Gli alberi, le siepi, gli arbusti, che ha sempre visto eretti, piano piano, iniziano a piegarsi sotto il peso di quel manto bianco. Ora sembrano piangere.
Un’immagine che la porta di nuovo al passato. Ricorda le ortensie del giardino condominiale sotto casa sua, a Roma. Era un vero spettacolo osservarle dall’alto del suo balcone al quarto piano. In primavera, si coloravano di viola e fucsia. La loro visione rallegrava inconsapevolmente le sue giornate. In quel gennaio di tanti anni fa’, quando vennero sorprese dalle neve, si stavano timidamente preparando alla fioritura. Avevano piccoli boccioli verdi, in attesa di aprirsi e di cambiare colore. Anche quegli arbusti vivi si erano dovuti inchinare alla neve. Ora, dopo tanto tempo, riflette sulle sue ortensie, su quanto abbiano accompagnato la sua vita, su come siano state testimoni silenziose delle sue trasformazioni nel ciclo vitale. Fino al grande salto. Fin quando, sempre avvolte nel loro mutismo, l’hanno vista varcare il portone di casa per andare incontro alla sua nuova vita di donna.
Ora Sandra vuole scendere, andare al parco vicino casa sua, il Retiro, toccare la neve, le piante, gli alberi. Partecipare. Ha voglia di ridere, di essere felice, di avere un’altra opportunità. Un forte desiderio di cambiare, di essere nuova.

“Mamma, mamma! C’è la neve! Usciamo, vero? Andiamo al Retiro!” dice con tono insistente sua figlia, mentre Luis cerca di ricomporsi dopo essere stato tirato giù dal letto da quell’uragano di Cristina. Ecco spiegato il trambusto. Sandra non ne aveva dubbi. Per questo non si era allarmata. Per questo continua tranquillamente ad essere incollata alla finestra della cucina, osservando l’incessante pioggia di neve diventata tempesta, ormai. Riflette. Pensa alle bufere, sempre meravigliose, che fanno apprezzare quel senso di sicurezza quando si guardano da un posto caldo e riparato. Si finisce per amare di più ciò che si ha. Aiutano a misurarsi con se stessi. Se si è al centro di una bufera la si odia e nel contempo la si ama, perché si ha la speranza che porterà qualcosa di positivo, una volta terminata.
Sandra voleva cambiare.
Luis, eccitato all’idea di giocare con le palle di neve insieme a Mateo, ripete la stessa cantilena della sorella, come un disco di vinile rigato che s’inceppa con la puntina. Sandra continua ad osservare Madrid. È bellissima. Non è Roma. Non potrà mai essere la sua mamma, anche se l’ha accolta come una figlia. Ma è qui il suo presente e il suo futuro. Lo vede osservando gli occhi felici dei suoi figli.
Un abbraccio ai suoi due gioielli. Uno slancio d’amore eterno e una lacrima che scende giù rigandole il volto. “Sì, ho preso la decisione giusta”, pensa fra sé e sé. E con un grande sorriso inizia a tirar fuori, insieme a Cristina e a Luis, i doposci, i piumoni, i cappellini, le sciarpe e i guanti. E via, all’avventura sulla neve di Madrid!
“Mamma, la macchinetta!”, grida Cristina mentre Sandra sta per chiudere la porta. “Dai su, non è importante! Andiamo!” replica la mamma. Ma vedendo il volto triste dei suoi piccoli entra dentro casa alla ricerca della macchinetta fotografica, chiude la porta e chiama l’ascensore.
“Come posso spiegare a Cristina che per certe cose le fotografie non servono? Alcune non si possono fotografare. Si sentono. Rimangono chiuse in un cassetto, là, in fondo al cuore. Magari non ci pensi più. Magari non ci hai mai pensato, le hai solo sentite e non sai quanto sono parte di te, fino a quando una sensazione nuova, improvvisa le fa riaffiorare e ti accorgi che già la conoscevi. Magari ti rendi conto che era proprio quello di cui avevi bisogno per capire te stessa. E, poi, non si può di certo immortalare la pura felicità che sanno trovare i bambini nelle piccole cose. Osservando un fiore, un animale che gioca, prendendo una pala e un secchiello al mare per fare i castelli di sabbia che un secondo dopo vengono distrutti da un’onda, loro sono contenti. Noi adulti, troppo spesso, consideriamo tutto ciò una perdita di tempo e ci dimentichiamo di quanto, invece, possa essere meraviglioso godere di ciò che abbiamo senza contaminazioni esterne. Cristina e Luis vivono ancora nell’innocenza. Sanno ridere, amare ed amarsi spensieratamente”.
Sandra osserva con tenerezza i suoi figli mentre si dirigono tutti verso il parco. Prendono la neve per terra, l’appallottolano ed iniziano la loro battaglia. Tirano palle di neve a lei e a qualche passante. Sandra risponde divertita. “Mi ci voleva la neve”, pensa. “Non sapevo di desiderarla così tanto…”

Una leggera contrazione del suo stomaco. Inizia il suo amaro viaggio nel passato.
“La mia adolescenza. Quella necessità di piacere ad ogni costo, di volere un ragazzo, di essere desiderata, di essere bella, perfetta, eternamente giovane. Quella voglia di seguire i modelli imposti dalla società. Quel corpo che non mi dava piacere, goffo, grasso, che non amavo, che gli altri non amavano. I primi sintomi appena identificabili della malattia. Era divertente gettare la merenda nei rifiuti, quell’altalena tra il non toccare cibo e l’ingurgitare a dismisura qualsiasi cosa mi venisse a mano per poi vomitare. Provocarmi il vomito mi faceva star bene. Mi sentivo pulita, rinata. Avevo paura di perdere il controllo di me stessa, il terrore di aumentare di peso. Ero irritabile, iperattiva. Sentivo la pressione della mia famiglia, dei miei amici che mi volevano far capire ciò che non volevo capire. Stavo dimagrendo a vista d’occhio. La depressione e la paura di mia madre. I tour-de-force ai quali mi costringeva mio padre da medici e psicologi. Non c’era verso. Io continuavo a sentirmi sempre più grassa. Soffrivo della tipica distorsione dell’immagine corporale della malattia che dicevo di non avere. Sono sicura che anche le mie ortensie vedevano che stavo male, che soffrissero insieme a tutti coloro che mi volevano bene. Ma non potevano aiutarmi. Nessuno poteva. Solo io potevo. All’improvviso Sonia, la cugina di una mia amica, morí per la mia stessa malattia. Mi si aprirono gli occhi. Da lí il cammino in salita. Le analisi, gli ospedali, le medicine, il mio lento recupero, l’amore di Manuel, la mia nuova vita a Madrid. La gioia di avere due bambini meravigliosi a cui dedicare tutta me stessa. Il contrappasso della solitudine per la costante assenza di mio marito per lavoro.
Manuel è partito da due giorni. Deve stare fuori due settimane, questa volta. Troppo. Ho accettato questa situazione per amore. Pensavo di essere forte, di potercela fare. Ieri, un’altra interminabile notte, sola. Volevo iniziare di nuovo quel percorso. Davanti allo specchio, ho visto i solchi delle mie rughe, la mia pelle, una volta rigogliosa e senza macchie, appassita, priva di vita, con un cloasma che dopo le gravidanze non accenna ad andarsene. Perché comprare creme, andare a Pilates, condurre una vita sana alimentandomi in modo corretto, se poi il risultato è questo? Ancora dieci chili in più dal matrimonio. Ancora non sono la Sandra che voglio.
Ieri notte, per un momento, mi sono sentita morire, ho sentito che l’unica soluzione ai miei problemi era chiudermi in bagno, aprire il water, chinare la testa, mettere l’indice e il medio della mia mano destra in gola fino a toccare l’ugula. La tentazione di provocarmi il vomito era forte. Non mi sono dimenticata di quella sensazione liberatoria, purificante. Ma non l’ho fatto. Oggi più che mai ho capito il perché.
Ho un marito che mi ama, che ha curato pazientemente la mia anima malata, che mi è stato vicino con forza e dedizione. Ci sono le mie persone lontane e vicine che mi amano e che continuano a curarmi insieme al ricordo delle mie ortensie e della neve di Roma. C’è il presente che mi vede rotolare spensierata come una bambina sulla neve di Madrid, insieme ai miei figli. Vedo la neve attraverso i loro candidi occhi. Sono viva, completamente immersa in quel ghiaccio caldo che mi ha fatto rinascere”.

Elisabetta Bagli Poesia
(Eli70 per www.blusubianco.it)