Quelle scale di sottile angoscia di Rossana Roxie Lozzio

Non ho mai amato quella scala di cemento che portava in cantina ed ogni volta che ho dovuto percorrerla, da bambina, mi sono fatta del male… dentro.
Non c’era nulla che mi piacesse, là sotto… c’erano ragni, poche lampadine che, quando funzionavano, finivano comunque per spegnersi a causa di uno sciocco automatismo che aveva impostato colui che aveva creato l’impianto di illuminazione degli scantinati del piccolo condominio, in cui abbiamo abitato per la manciata di anni che ci hanno visti insieme, come famiglia e c’erano odori che, nella maggior parte dei casi, non mi solleticavano le narici ma mi suggerivano di fuggire lontano.
Eppure era anche là sotto che avevi impostato il tuo regno, era là dentro, in quella piccola cantina abbinata all’appartamento che avevi preso in affitto con il sogno di costruirti una bella famiglia, che esisteva il tuo piccolo ma enorme mondo. Lì avevi riposto tutte le tue passioni, la creatività che eri costretto, per una serie di circostanze che ti furono avverse, ad accantonare spesso… così come in cantina si è soliti accantonare oggetti che danno fastidio o che non sappiamo dove altro potremmo mettere.
Se ripenso a me che scendo quei gradini, è a te che non posso fare a meno di pensare… ogni ricordo della bambina paurosa che si lasciava convincere a percorrere i gradini di quella scala illuminata a tempo – a meno che qualcuno non si offrisse di restare a fare da sentinella al dispettoso interruttore posto sulla parete in alto – è legato al padre che ho vissuto solo per una manciata di anni e che ha rappresentato il vuoto della sua assenza, anche prima che lasciassi questa Terra, per tutto il resto della mia esistenza.
Mi viene in mente il tuo lavoro, mentre facevi il vino, davanti a quell’enorme damigiana e il sorriso che portavi dipinto sulle labbra, trafficandoci intorno, perché probabilmente ti faceva sentire abbastanza bravo da poter provare orgoglio e mi vengono in mente la tua macchina per scrivere e le tue dita che picchiavano nervosamente sui suoi tasti, dopo i continui ripensamenti che ti facevano pensare di averla risposta lì per sempre… e ancora tutti i tuoi scritti, su quei quaderni antichi posati sulle mensole, i tuoi componimenti musicali, i testi disegnati fra le righe del pentagramma!
Oggi sono una donna ma mantengo la bambina di allora dentro il cuore e vorrei poterci tornare, sul pianerottolo di quei gradini di cemento che conducevano alle cantine. Vorrei scenderli ad uno ad uno, con la segreta ed intima speranza di ritrovarti, all’ingresso del corridoio che vedeva disseminate le porte o all’interno di quella che era stata assegnata a noi, impegnato a fare una delle tante attività che ti vedevano protagonista. Distante da tutte le brutture che ti hanno accompagnato, fuori da quel piccolo e bislacco mondo incantato.
M’immagino la faccia che farei, vedendoti riapparire dall’oscurità di quell’ambiente a me così ostile e sorrido, perché ti ricordo sorridente. Ti amo, papà.