Il predatore di Paolo Fiorino

Estate 2012
Cosa ci poteva essere di peggio che morire in quel modo?
Forse solo non morire affatto.
I pensieri di un trentenne non dovrebbero mai essere così disperati, ma in certe situazioni non si può essere molto ottimisti, nemmeno da giovani.
Ormai aveva perso il conto delle sue vittime.
La ragazza di oggi, appesa a testa in giù e scuoiata viva come uno scoiattolo, era solo l’ultima di una lunga lista.
La scena appariva ancora vivida davanti ai suoi occhi.
Vedeva ancora distintamente il sangue colare dal suo corpo straziato e si raccogliersi in una pozza scura sotto di lei. Vedeva le braccia che pendevano come rami spezzati. Ma soprattutto sentiva ancora distintamente le urla di dolore che erano risuonate nella cantina mentre compieva la sua opera.
Aveva inciso la pelle quel tanto che bastava per sollevarne alcuni lembi poi aveva tirato con cura fino a staccarla come un guanto.
I muscoli pulsanti erano venuti allo scoperto, ma la ragazza non era morta subito perché per prolungare la sua agonia l’aveva appesa a testa in giù in modo che il sangue affluisse al cervello in maggior quantità e la tenesse cosciente fino all’ultimo.
La sua pelle ora era poco più di un fagotto gettato sul pavimento come un vestito vecchio, uno spettacolo al tempo stesso nauseante ed esaltante.
Lo disgustava tutto quel sangue ma al tempo stesso sentiva che l’odio che lo possedeva si nutriva di quel dolore e con esso si rafforzava.
La bestia che albergava nel suo corpo si era acquietata solo dopo aver avuto ciò che desiderava, solo quando il cuore della ragazza aveva ceduto e le sue urla disperate erano cessate. Adesso forse lo avrebbe lasciato in pace per qualche giorno.
Forse.
Ormai non era più sicuro di nulla.
Il tempo tra una caccia e l’altra si riduceva sempre di più e la crudeltà con cui eseguiva le sue condanne a morte cresceva in maniera incontrollata.
La bestialità di quanto era capace di fare lo sgomentava, non tanto per le azioni in sé quanto per il fatto che sentiva di non potersi più fermare.
Ma poi, in fondo doveva ammetterlo, si divertiva con quei giochi.
Godeva del male che faceva e desiderava spingersi sempre un po’ oltre.
Guardò con freddezza il cadavere appeso.
Oggi è toccato a te, mi spiace.
Voltò le spalle e se ne andò.
Non avrebbe smesso.
Mai.

Estate 2012
Quello spettacolo era quasi insopportabile.
Quasi.
Perché dopo tanti anni passati a vedere cadaveri martoriati un po’ ci si fa l’abitudine e le cose cominciano a sembrare un po’ meno gravi, un po’ meno importanti.
A poco a poco tutto comincia a sbiadire attorno a te e sembra che a un certo punto nulla abbia più davvero importanza.
Ombre.
Niente di più.
Le persone vivono e svaniscono senza lasciare tracce, come ombre gettate sul muro dai fari di un’auto di passaggio.
Però uno spettacolo del genere era un po’ troppo, perfino per uno come per lui.
Doveva fermarlo, impedire che succedesse di nuovo.
O almeno che succedesse ancora troppe volte.
Il poliziotto prese un pacchetto di sigarette dal taschino della camicia e se ne accese una.
Aspirò il fumo acre e si preparò alla caccia.

Estate 2010
Il vecchio giaceva riverso sull’asfalto. Si era accasciato tra i rifiuti proprio davanti ai suoi occhi.
Cazzo, ma non poteva aspettare ancora qualche minuto? Non poteva aspettare che fossi passato?
Sbuffando gli si avvicinò per tentare di aiutarlo.
Tese la mano e lo afferrò per una spalla, nel tentativo di rigirarlo a faccia in su.
Al contatto con la stoffa della sua giacca provò un brivido di disgusto così intenso che dovette ritrarsi per un istante.
Ma che ti prende? E’ solo un vecchio che sta male.
Vincendo il ribrezzo, lo voltò e lo aiutò a mettersi seduto.
– Signore? Come sta? Ce la fa ad alzarsi? – gli disse.
Il vecchio non rispose. La sua tesata ciondolò come quella di una bambola dal collo spezzato.
Sbuffò per il caldo che gli faceva appiccicare la stoffa della divisa alla pelle.
Afferrò il mento del vecchio e gli sollevò la faccia.
Un disgustoso rivolo di bava gli colava da un angolo della bocca.
Di colpo il vecchio spalancò gli occhi e lo afferrò per un braccio con un vigore insospettabile.
La sua presa era così forte che non poteva essere vinta.
La stretta gli procurò una fitta di dolore lancinante, ma la cosa peggiore fu l’essere obbligato a sostenere lo sguardo vitreo del vecchio.
Era uno spettacolo terribile, come se da quelle due palle spente e prive di vita sgorgasse un’energia che non poteva essere compresa. Tutto il male e il marciume dell’universo parevano essersi concentrate in quello sguardo.
Il terrore si impadronì di lui.
Sbarrò gli occhi e cominciò a tremare.
In un solo istante perse completamente il controllo del proprio corpo.
Non riusciva più a muovere un muscolo e benché desiderasse con tutte le sue forze alzarsi e fuggire, non ci riusciva.
Non poteva nemmeno girare la testa o chiudere gli occhi, era costretto a sopportare quello sguardo carico di odio che gli penetrava nella testa e bruciava i suoi pensieri come uno stiletto arroventato.
Tentò di urlare ma le parole gli morivano in gola.
Per un attimo temette di morire, poi cominciò temere di continuare a vivere.
Il terrore era troppo grande.
Insopportabile.
Il cuore gli martellava nel petto come impazzito e pareva voler esplodere da un istante all’altro.
Il vecchio lo fissò intensamente ancora per qualche istante poi chiuse gli occhi, allentò la presa e ricadde all’indietro, privo di vita.
Di colpo la morsa che lo aveva trattenuto si indebolì e il cieco terrore che lo aveva sopraffatto scomparve.
Si alzò di scatto e arretrò di un paio di passi.
Si guardò attorno, ancora squassato da un tremito incontrollabile, e si mise a correre a perdifiato, nel vano tentativo di allontanarsi dall’orrore che aveva appena vissuto.

Estate 2012
Risolvi il caso in fretta, gli aveva detto il commissario.
Già, in fretta. Come se si trattasse di una cosa facile.
Ma in fondo era colpa sua. Lo aveva abituato bene e adesso doveva giustificare le sue pretese.
Questa volta però non aveva appigli né indizi.
Gli omicidi erano brutali e inspiegabili e le vittime parevano scelte in modo casuale, senza premeditazione.
La solita sigaretta gli pendeva dalle labbra, ma questa volta il fumo che gli bruciava la gola e i polmoni non lo aveva aiutato a concentrarsi.
C’era qualche traccia di cui non si era accorto?
Qualcosa di cui lui e la scientifica insieme non si erano accorti?
Poco probabile.
Anzi impossibile.
Eppure nessun delitto è mai perfetto, se un caso non viene risolto è sempre colpa dell’investigatore che non sa cogliere le tracce.
La soluzione era davanti ai suoi occhi, solo che lui non poteva vederla.
Eppure la sentiva.
Era vicina ma inafferrabile.
E questo lo faceva impazzire.
Non aveva mai fallito e non intendeva cominciare questa volta, costasse quel che costasse.
Non gli importava di altro nella vita.

Estate 2012
Ancora in caccia.
Ancora una vittima da trovare.
Ancora e ancora.
Senza fine.
Senza scopo.
Senza rimedio.
All’improvviso vide l’uomo e seppe che era lui quello che stava cercando.
Era un individuo di circa quarant’anni, alto, ben vestito con i capelli corti e il viso affilato.
Perse il controllo.
Buio.
Una scarica di adrenalina lo invase, il suo corpo reagì con un brivido.
Riaprì gli occhi e lo vide.
Non dovresti girare da solo a quest’ora della sera, stronzetto.
La sensazione di onnipotenza che provava in quei momenti era l’unica cosa buona della sua vita.
Per il resto era uno schifo.
Un lavoro noioso, pochi soldi, solo qualche bicchiere a tenergli compagnia.
Nulla per cui valesse la pena di vivere, in ogni caso, ma quei momenti lo ripagavano di tutto.
Un solo istante vissuto così lo ripagava dello squallore di interi anni.
Qualcosa per cui valesse la pena di vivere c’era, dopotutto.
Diede un colpetto sulla spalla dell’uomo per attrarre la sua attenzione.
L’uomo si voltò e lo fissò.
– Che vuole?
Nulla, solo la tua pelle.
Senza dargli tempo di reagire lo colpì con un diretto al volto che lo fece stramazzare a terra.
Gli fu sopra in un attimo e lo colpì alla testa con un manganello telescopico che aveva estratto da una tasca posteriore dei pantaloni.
Non ci fu bisogno di un secondo colpo.
L’uomo cadde riverso, privo di conoscenza.
Lo afferrò per le spalle e lo caricò in fretta sul furgone.
Era sera e la strada era deserta, nessuno poteva averli visti.
Lo gettò senza molto riguardo nel retro, poi si mise alla guida e partì.
Non si curò di legare la sua preda.
Era sicuro che il colpo che gli aveva assestato fosse abbastanza forte da tenerlo fuori gioco per molte ore.

Estate 2010
Correva da un tempo che gli pareva infinito ma ancora non si sentiva tranquillo.
Non aveva messo abbastanza distanza tra lui e il cadavere di quel vecchio.
Anzi, per quanto corresse sentiva che il pericolo non si allontanava.
Vecchio bastardo! Ma cosa cazzo mi ha fatto?
Qualcosa era cambiato in lui. Se ne rendeva conto ma non riusciva a spiegarselo. Non aveva mai avuto così tanta paura in vita sua come quando aveva incrociato lo sguardo di quel relitto umano.
Non era l’uomo che lo aveva spaventato, era evidente, ma qualcos’altro di infinitamente pericoloso.
E quel qualcosa lo seguiva, ne era certo.
Non sapeva cosa fosse né cosa volesse da lui, ma era certo che fosse alle sue spalle pronto a ghermirlo.
Non poteva liberarsene.
Non lo avrebbe mollato.
Mai.
Poi lentamente, passo dopo passo, la paura cominciò a scemare.
Il suo cuore rallentò e la scarica di adrenalina che lo aveva fatto schizzare via come un proiettile impazzito si esaurì.
Rallentò la corsa.
Ora si sentiva meglio.
Rallentò ancora e infine sì fermò, ansante.
Il sudore scorreva a rivoli sulla sua pelle ma si sentiva davvero meglio.
Si stupì di quanto si sentiva bene, molto più di quanto si fosse mai sentito prima.
Era una percezione inspiegabile, ma piacevole.
Tutto il terrore e il disgusto di poco fa parevano essersi dileguati e quella che provava non era solo la sensazione di scampato pericolo, ma qualcosa di più profondo.
Si sentiva forte.
Molto forte.
Invincibile, questa era la parola giusta.

Estate 2012
L’uomo nudo era legato al tavolo in modo che non sarebbe mai riuscito a liberarsi.
Grosse corde gli serravano i polsi e le caviglie e si incrociavano sotto il piano del tavolo in un nodo che si stringeva sempre di più quando l’uomo si contorceva nel tentativo di liberarsi.
Lo aveva imbavagliato perché la sua voce stridula lo infastidiva.
Ora emetteva solo dei mugolii incomprensibili.
Prese un grosso coltello da macellaio dalla lama affilata e cominciò a incidere le sue carni a partire dalle piante dei piedi.
Questa volta non gli importava molto di tenere in vita la sua vittima per lungo tempo.
Gli importava solo di causargli il maggior dolore possibile. Cominciò, tracciando un solco sanguinante sulla gamba destra, fino all’anca.
Attese un attimo, per far calmare le contorsioni che avrebbero rovinato la sua opera, poi passò all’altra gamba.
Con la lama disegnò a lungo, incidendo e sollevando lembi di pelle ma senza causare ferite mortali.
Il sangue scorreva copioso.
Pochi minuti ancora e l’emorragia sarebbe stata fatale.
A quel punto era ormai pronto.
Afferrò i lembi di pelle che aveva sollevato dalle gambe e cominciò a tirare lentamente, scoprendo i fasci muscolari.
– Sei un vero elegantone, ma uno come te dovrebbe badare un po’ meno alle apparenze e un po’ di più a ciò che ha dentro.
L’uomo ebbe un tremito violento e si inarcò.
– Già, ma cos’avrai dentro? Vogliamo dare un’occhiata?
Con un forte strappo separò la pelle del torace dai muscoli sottostanti.
– Interessante! Comunque sei meglio fuori che dentro! – lo schernì mentre lo guardava morire.
L’uomo si irrigidì e poi di colpo si distese.
Dolore.
Un lungo brivido di piacere gli discese lentamente lungo la schiena.
Poi più nulla.
Silenzio.
Era tutto finito, ma questa volta non sentiva la stessa soddisfazione.
Sentiva un impulso interiore, una pressione strana.
La sua mente voleva qualcos’altro, qualcosa di diverso.
Inspiegabilmente mancava ancora qualcosa a quella scena per raggiungere la perfezione.
Era una sensazione che aveva già provato, ma mai con tanta intensità.
Strinse le spalle, come a voler scacciare quel pensiero che pareva provenire da un altro luogo.
Si accese una sigaretta e aspirò il fumo azzurrognolo.
Il sapore acre della nicotina aveva sempre avuto il potere di calmarlo.
E in effetti anche questa volta pareva aver funzionato.
Ora si sentiva più tranquillo.
Ora c’era davvero tutto.
Tossì e gettò la sigaretta di lato.
Poi si allontanò.
Ancora in caccia.

Estate 2010
Si sentiva forte e invincibile.
Non era mai stato così bene.
I suoi muscoli parevano esplodere di rabbiosa potenza e i suoi sensi erano acuti come quelli di un predatore.
Gli era accaduto qualcosa di inspiegabile quella sera e ne era felice.
Però c’era qualcosa che ancora gli mancava.
Una sensazione profonda lo tormentava.
Era una sensazione indescrivibile, come un desiderio a lungo represso che stava gradualmente tornando a galla.
Di colpo tutto si fece chiaro.
Era un predatore.
Buio.
Adrenalina.
La caccia era cominciata.

Estate 2012
Gli ultimi due erano una donna appesa a testa in giù e un uomo legato a un tavolo.
Entrambi erano stati scuoiati vivi.
Non c’era altro.
Nessun movente e niente arma del delitto.
Nulla di nulla.
Ancora una volta.
Fino a che aveva notato la traccia.
C’era un mozzicone di sigaretta a pochi passi dal tavolo dell’esecuzione.
Lo aveva raccolto senza farsi vedere e nascosto in una tasca dei pantaloni.
Stava nascondendo una prova e non sapeva nemmeno perché.
L’unica cosa di cui era certo era che quella era l’unica cosa giusta da fare.
E quel mozzicone gli aveva aperto gli occhi.
Su tutto.
La saliva sul filtro era sua, glielo aveva confermato il laboratorio, a cui lo aveva consegnato per la comparazione assieme a un suo campione.
Il tizio del laboratorio gli doveva più di un favore e quindi non fece domande.
Quel mestiere si faceva di giorno in giorno più difficile, e lui aveva un disperato bisogno di aiuto. Per questo si era rivolto allo psicologo.
Ma non era servito.
Poi aveva trovato una strada alternativa.
O meglio, la strada alternativa aveva trovato lui.
Da tempo era perseguitata da visioni di feroci omicidi e ora volava liberarsi da quel fardello.
Questa cosa andava fermata.
Senza aspettare oltre.
Accarezzò la canna della pistola e se la infilò in bocca. Era il modo migliore di uccidersi, lo sapeva molto bene.
Spararsi alla tempia a volte non risolveva la situazione. Alcuni aspiranti suicidi sopravvivevano al proiettile e passavano il resto della loro vita come larve in letto d’ospedale. Invece un proiettile sparato direttamente nel palato faceva inevitabilmente volare via gran parte della calotta cranica e metteva fine a tutto, senza problemi.
Era difficile accettare che fosse giunta la fine, ma tutto sommato era meglio così.
Essere un poliziotto era già abbastanza faticoso, ma questo era davvero troppo.
Da quando, due anni prima, aveva aiutato quel vecchio nulla era stato più lo stesso.
Uno stronzo demone del cazzo.
Ma proprio a lui doveva capitare?
Un fottuto spirito maligno che si era impadronito di lui e lo costringeva a uccidere per soddisfare la sua voglia incontenibile di male.
E se non fosse stato così attaccato al suo lavoro di poliziotto non si sarebbe trovato in quella situazione.
Ora non sarebbe stato al capolinea della sua vita con una pistola in bocca.
E invece quel suo maledetto senso del dovere aveva dovuto mettersi in mezzo.
Aveva dovuto spingerlo a lasciare in giro quel mozzicone di sigaretta.
Aveva dovuto lasciare una traccia per far catturare l’assassino.
Solo che l’assassino era lui.
Una specie di confessione involontaria.
Uccidere non era un bel passatempo per un poliziotto.
Non era un bel passatempo per nessuno, a dire il vero, però per un poliziotto era ancora peggio.
Doveva fermarsi, una volta per tutte e non c’era altro modo.
Doveva smettere di essere un predatore.
Strinse il grilletto fino al limite, un millimetro dopo l’altro, lottando per vincere la resistenza del suo istinto di autoconservazione .
Le sue nocche sbiancarono per la tensione.
Ancora un millimetro e l’esplosione della cordite avrebbe messo fine a quel delirio.
Ancora un millimetro, quello più difficile, l’unico che contasse davvero e poi tutto sarebbe finito.
Ancora uno sforzo.
Ancora uno.
Buio.
Adrenalina.
Si tolse rapidamente la pistola dalla bocca e la rimise nella fondina, con un sorriso gelido.
In fondo per morire c’era sempre tempo.
Prima valeva la pena di divertirsi ancora un po’.