L’uomo nero: la follia che come un’ombra avanza di Deborah Fasola

La stanza era buia ed io avevo paura, ma a trent’anni si può ancora aver paura del buio?
Stavo fissando quella porta che mi aveva così inquietato da bambina: era socchiusa e scura, come la mente di molti esseri umani dai quali fuggivo costantemente. Non ero mai stata normale, le ombre mi avevano reso una pazza, uno strumento del mio Io, un meccanismo di rimozione per un dolore troppo grande.
Non mi era mai interessato ricordare, anzi, tutti i miei nervi erano sempre tesi ma la mia mente si rifiutava di rievocare immagini.
Ci fu un tempo in cui lo avrei voluto morto, l’uomo nero. Non fu come per tutti gli altri bambini, fu intenso e devastante, perché io avrei voluto distruggerlo con le mie mani, così com’era stato fatto a me.
Ma quella notte ero tornata, quella notte avevo sfidato sorte e resistenze, per cercare di capire. Ero di nuovo nella quiete della mia cameretta, l’avevano lasciata intatta, tra pizzi e merletti rosati, tra bambole di porcellana che, come me, non parlavano e non sorridevano più. Poi uno scricchiolio mi fece trasalire e sollevai le coperte sino agli occhi, come quando ero piccina.
Poi la mano scarna e tremolante di qualcuno, comparve nel varco dischiuso dell’origine del mio orrore. Udii una risata sommessa e poi la sua voce, la voce del mostro che, ormai anziano, chiamava il mio nome.
“Non nominarmi, fai che le tue sporche labbra macchiate di peccato, non pronuncino mai più il mio nome… o ti distruggerò” pensai.
“Stai lontano da me, non sono più indifesa, sono pronta a lottare contro i fantasmi del passato e ora che quell’oscurità io l’ho abbracciata, il nero che ti porti addosso, la devastata mente che agisce per te… non mi fanno più paura. Hai capito? Io non ho più paura. Di te”
Ma lui avanzò, lui entrò nella mia stanza e nella mia nuova mente, lui scavò ancora dentro essa per cercare di circuirmi, per plagiarmi, per toccarmi.
Era l’uomo nero, la follia che nell’ombra avanza, per inghiottire anche me.
Avevo scelto di non capire, di non voler più sapere… eppure era sempre stato vicino a me, l’uomo nero dei miei sogni era sangue che mi scorreva nelle vene ed era colui che mi aveva donato la sua follia, rendendomi parte di essa.
Poi un rumore sordo mi traumatizzò: era la sua testa che, picchiando forte contro il muro, lo macchiava della sua pazza crudeltà, frantumando i pensieri che lo avevano accompagnato per una vita, distruggendo il mostro che era stato.
Non era stata colpa mia, non ero stata io… era stata la pazzia: sua insana essenza, mia eredità.