In una notte di neve sbagliata di Andrea Mazzolini

Mancavano due giorni a Natale e un vento sferzante dal Nord portava un freddo polare su tutta la penisola. Tra parentesi, io a dire la verità non sono mai stato ai Poli ma immagino che ci sia molto più freddo rispetto al centro Italia. Sono i telegiornali che parlano sempre di freddo polare d’inverno e caldo tropicale d’estate. Evidentemente le iperboli vendono bene. Fine della parentesi.
Era veramente freddo ma le previsioni avevano escluso categoricamente che la neve che aveva imbiancato gli appennini sarebbe scesa a bassa quota. Ciò nonostante nevicava, o meglio, il vento si divertiva a far ruzzolare i fiocchi di neve. Stavo tornando a casa quando la spia del carburante iniziò a lampeggiare, fu per questo che svoltai verso il distributore. Il benzinaio non c’era, non so se fosse già passata l’ora di chiusura oppure se semplicemente avesse deciso di anticiparla. Utilizzai il self-service e per una volta riuscii a non farmi mangiare la banconota dalla macchinetta. Risalii in macchina e accesi i fari.
La vidi sulla strada, abbastanza svestita, nonostante il freddo. Non sapevo come si chiamava o di che colore avesse gli occhi ma non avevo dubbi sul perché stava là. Era una delle tante sfortunate che vendono un po’ di calore e un surrogato d’affetto. Fino a quel giorno non avevo mai utilizzato i servizi offerti da lei o dalle sue colleghe. E non pensavo che me ne sarei mai servito. Ma un attimo di follia può capitare, così, senza una ragione, se ci fosse una ragione per tutto non esisterebbero i folli. La raggiunsi, rallentai e mi accostai a lei. Le aprii lo sportello senza dire niente e la feci salire. Ripartimmo. Continuava a nevicare. Le chiesi come si chiamava. “Natalija”, rispose senza aggiungere altro. Pensavo alla strana coincidenza di aver incontrato Natalija l’antivigilia di Natale e non mi resi conto che stavo guidando direttamente verso casa mia, come se stessi accompagnando una mia amica e non una donna di facili costumi. Ora direte che sono pazzo, e forse in quel momento lo ero, ma quando entrammo in casa le feci fare un breve giro per mostrarle le stanze e le preparai un tè. Provai a scambiare qualche frase con lei ma rispondeva solo a monosillabi. La sensazione era che comunque capisse molto bene l’italiano ma che fosse stata istruita dai suoi protettori a non raccontare niente. Finimmo in camera da letto ma non successe un gran che, ero molto imbarazzato e il fatto di trovarmi con una professionista non aiutò molto. Le pagai comunque quanto dovuto. Continuava a nevicare e nonostante mi dispiacesse riaccompagnarla sulla strada del distributore con tutto quel freddo, non era rimasto molto altro da fare.
Fu allora che vide il mio pianoforte. “Io da ragazza suonavo e cantavo” disse con un sorriso misto a malinconia. È passato così tanto tempo. Il mio sogno era interpretare la Carmen, non sai quante volte mi sono immaginata un teatro gremito tutto per me. E guarda come sono finita…” Una lacrima le solcò il viso. “Ah, vedo che parli italiano molto bene… se vuoi possiamo cantare qualcosa insieme” proposi. “No, no, portami via…” Si diresse verso la porta e forse riaccompagnarla era la cosa giusta da fare ma non sempre si segue la ragione e si fa ciò che è giusto. Mi sedetti al pianoforte e cominciai a picchiare i tasti, cercando di suonare Habanera, l’aria di Carmen. Erano anni che non la suonavo ma le note vennero da sé, sotto le mia dita, come per magia, all’improvviso. Ma una magia, molto più grande, un miracolo, fatemi dire, stava per sorprendermi. Come il canto di un usignolo, la voce di Natalija si librò in alto a ricordarci che l’amore è un uccello ribelle che nessuno può domare.
Mancavano due giorni a Natale e due perfetti sconosciuti in un attimo di follia si sorpresero a fermare il tempo e a lasciare fuori la vita e a cantare follemente una vecchia aria in una notte di neve sbagliata.
Non l’ho più rivista.

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