Era casa mia di Denis Cornacchia

Molti anni or sono, e parlo del secolo scorso, quando l’estate lasciava il posto all’autunno, le foglie degli alberi spiccavano il volo per poi riempire le strade di quel colore giallo marrone. A stento si riusciva a riconoscere il marciapiede dalla strada, si preparava così il preludio per l’inverno. Ricordo lo scricchiolio dei ciottolini che mi portavano a scuola, lungo il viale di cipresso, al di là della vecchia cancellata, dove la mia campagna diventava città. Il solito tram oltre la via d’asfalto che s’arrampica sulla memoria per distogliermi dalle mie purezze; il sapore del camino quasi spento e il buon latte appena munto sorseggiato sulla soglia della cucinetta, quasi a cercare il sole tra i rami di una magnolia al centro del piccolo giardino di fronte casa. Cento metri, questa la distanza che separava il mio candido sogno dal cemento arrogante della civiltà. La panchina in giardino era il mio ritrovo strategico per far finta di leggere i libri di scuola, che finivano per diventare poesie e piccoli racconti, infatti mi piaceva molto scrivere, però accanto la magnolia della mia infanzia, dove sentivo generare in me ispirazioni uniche. Chissà, forse era il luogo a me pertinente, il posto giusto dove la fantasia prendeva il volo. Gli anni passavano lenti e l’amore per il mio cantuccio diventava possessione, guai se qualcuno della mia famiglia avesse violato il tempio dei miei pensieri, ero come intrappolato in un sogno che volevo non finisse mai. Si sa, ad una certa età gli anni passano più in fretta e fu così che il servizio militare mi chiamò, lasciai alle spalle il mio mondo per non tornarci mai più. Passarono molti anni, la mia famiglia aveva abbandonato quel piccolo angolo di campagna, costretti dall’espandersi di una città in corsa, bruciata da interessi e mostruosamente caotica. Il viale di cipressi divenne così un incrocio cittadino con semafori e la solita edicola nell’angolo di un palazzo casermone, cupo e male odorante, peggio delle tendopoli di fortuna. La casetta di campagna mutò in bar e pizzerie ed il piccolo giardino fu occupato da un monumento in memoria delle vittime di guerra. La magnolia non c’era più, al suo posto un abete e due panchine ai lati. Oggi, come ogni anno, il giorno di Natale torno a casa mia, mi siedo su una panchina e scrivo una poesia, ed ogni volta, strano, sento ancora l’odore del camino quasi spento. Un pezzo della mia vita non esiste più, ma rimane in un mondo infinito e per sempre… nel mio cuore.