Sui sedili del tram di Luisa Cagnassi

Sui sedili del tram

Tema: La strada

Autore: Luisa Cagnassi

immagine tratta da Pixabay
Stamattina ho voluto rinunciare all’automobile, quindi ho scelto il mezzo pubblico: mi aspetta un’amica in centro, per cui ho preferito evitare i problemi di parcheggio. Fortunatamente sono riuscita a sfuggire all’affollamento di studenti sul tram: sono valanghe, ti trascinano giù alle fermate, anche se devi proseguire.
 
Una giornata gradevole, sta per finire l’inverno, ma Torino con i suoi viali alberati, anche se spogli, mantiene un fascino tutto particolare. Sono fortunata, trovo un paio di posti a sedere liberi. Uno è impegnato da qualcosa, quindi siedo su quello accanto, qualcuno lo avrà voluto tenere occupato.
 
Alla fermata successiva scendono in molti, tranne due extracomunitari di colore, in piedi vicino all’obliteratrice, oltre ad alcune signore che, probabilmente, scenderanno alla fermata del mercato. Nessuno ha interesse per l’oggetto in questione e mi incuriosisco.
Domando a un tipo seduto di fronte: «È sua questa agenda?» mi fa cenno di no.
Recupero il volume e lo apro cercando un nome che ne identifichi il proprietario.
 
Dai vari cuoricini disegnati sulle prime pagine, presumo appartenga a una ragazza: sicuramente lo ha dimenticato. A metà dell’agenda sbuca una fotografia che funge da segnalibro. L’immagine raffigura un’adolescente: carina, i lunghi capelli la rendono dolce. Gli occhi castani, però, sembrano tristi e questo a mio avviso è insolito: a quell’età immagino le ragazze molto cariche di vitalità.
 
Apro il volume e intuisco che l’istantanea ha il compito di carpire l’attenzione proprio lì, nella postazione in cui è messa. Non dovrei farlo, ma cedo alla curiosità e inizio a leggere.
 
“Mi vergogno, mi vergogno di me!” scrive. La grafia è irregolare, quasi fosse scritta da una mano malferma. Mi prende uno strano stato d’ansia e proseguo.
“Sono anni che sopporto in silenzio, ora devo fermare questo orrore e non trovo il coraggio di parlare: ho paura. Allora lo racconto qui chi sei, quello che mi hai fatto, prima di raggiungere il mio obiettivo finale.”
 
Poi una lista di date di fatti che mi lasciano esterrefatta.
“La prima volta che mamma ti chiese di badare a me, insieme alle tue bambine, avevo quasi sei anni, come Alessia che li aveva già compiuti. Elena invece otto. La mattina loro erano a scuola, la zia al lavoro e a te toccava il turno pomeridiano. Tuo fratello, ovvero mio padre, era fuori città per lavoro e nonna non stava bene.
Sei sempre stato affettuoso, ma quella mattina lo fosti in modo diverso e io non capivo e ti lasciavo fare. Poi mi hai insegnato un gioco, ti piaceva tanto: mi si è rivoltato lo stomaco.
«Ti voglio molto bene, lo sai? Devi mantenere questo nostro segreto» mi spiegasti. Io, però, restai scombussolata tutto il pomeriggio.
Altre volte mamma mi portò a casa da te, credendomi felice. Non mi facevi male, dentro di me, però, qualcosa si stava logorando lentamente.
Al mio dodicesimo compleanno, sei venuto ad aspettarmi all’uscita di scuola.
«Che ci fai tu qui?» ti chiesi alquanto preoccupata.
«Sei cresciuta, ora meriti un dono più importante.» Fu terribile invece, non ti accontentasti più di giocare, decidesti di fare sul serio: diventai donna anzitempo.
Il mio corpo immaturo rigettava tutto questo e cominciai a perdere l’appetito.”
 
Distratta dalla storia, disgustata ho proseguito oltre la mia fermata. Il racconto continuava, fu però l’ultima frase a scioccarmi profondamente.
“Oggi ho deciso di non concederti più nulla. Tu sei malato e hai rovinato la vita alle mie cugine e a me: non lo farai più, lo giuro. Ho scordato di proposito questo diario, spero che qualcuno ti denunci, anche se per me sarà finita. Mi auguro che la Gran Madre mi dia il coraggio che non ho avuto sinora. Chiedo perdono a mamma e papà”: Aurora.
 
Sono sgomenta, la prima cosa che l’istinto mi suggerisce è chiamare la polizia, nella speranza di arrivare in tempo. 
«Pronto, polizia? Vorrei impedire un tentativo di suicidio».
Poi accenno le motivazioni, descrivendo la zona dove, il mio intuito prevedeva sarebbe successo il fatto. Assicuro anche la mia presenza: sono sicura delle mie percezioni. Scendo e chiamo un taxi, dimenticando l’appuntamento. Devo raggiungere il punto della città a cui accennava Aurora.
 
Da Piazza Vittorio, proseguo sul ponte Vittorio Emanuele I, che porta alla Chiesa della Gran Madre. È già gremito di persone, sono pervasa da un grande agitazione.
Un’ambulanza, proprio ai piedi della collina, dove i barellieri stanno adagiando un corpo esile sulla lettiga. Consegno il diario della ragazza al brigadiere incaricato e mi avvicino.
 
«Siete arrivati in tempo? Come sta?» chiedo al personale medico. La ragazzina è vigile, mi guarda frastornata. La vedo minuscola avvolta nella coperta, pare una bambina, le prendo una mano e lei la stringe.
«Ciao Aurora, come ti senti?» Le starò vicino sino a che non arriverà la sua mamma. «Ho trovato io il tuo diario. Quanti anni hai?» La rassicuro accarezzandole i capelli bagnati.
 
«Quattordici. Grazie signora» risponde abbozzando un sorriso, poi volta il viso dal lato opposto per l’’imbarazzo. La sua mano tra le mie: non sono capace di andarmene.
 
 

2 Risposte a “Sui sedili del tram di Luisa Cagnassi”

  1. Penso che agli insegnanti siano capitate molte storie dolorose tipo questa. E’ un mestiere di grande responsabilità e sensibilità. Grazie Claudia.

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