Strati d’asfalto di Maena Delrio

Strati d'asfalto

Tema: romantico

Autore: Maena Delrio

immagine tratta da www.stockvault.net

Testo fuori gara

S’era in agosto. Una di quelle serate afose, che la pelle sembra sciogliersi sotto la maglietta. L’asfalto ribolliva ancora, nonostante il sole fosse già calato, riversando nell’aria i miasmi del bitume che si attaccava alle suole delle scarpe. Pure i muri sembravano impregnati, e i vestiti stesi ad asciugare e dimenticati sui fili appesi ai balconi, e le tende nelle case e perfino il pane sulle tavole e i piatti vuoti.
 
S’era in agosto, dicevo. Me ne ricordo bene, perché avevo appena compiuto dodici anni e mio babbo mi aveva regalato un busterino blu nuovo fiammante, che diceva di aver preso in concessionaria e che ci potevo girare solo al Quartiere. Come per tutti i regali di mio padre, mica ci facevo domande, io, che altrimenti finiva come mia madre che gli aveva urlato contro, che lei non ne voleva sapere, di roba rubata, quando lui le aveva regalato una collanina piccola col brillante che luccicava come una stella. E quando aveva cercato di togliersela per restituirgliela, babbo l’aveva colpita con un ceffone così forte che le si era piegato il collo. Poi gliel’aveva strappata di fronte, la collana, che se non la voleva bastava dirlo, e di smetterla di strillare come una gallina! Il giorno dopo, mamma se n’era andata. 

Lui aveva dato di matto quado se n’era accorto, aveva pure fatto un buco nel muro con un pugno. «Quella cagna non ha nemmeno salutato il bambino!» aveva urlato quando erano accorsi i vicini, svegliati dal frastuono. Io lo sapevo che non era vero. Mamma era entrata in camera mia, prima di andarsene, mi aveva dato un bacio umido. Avevo pensato che fosse saliva e mi ero portato una mano sulla guancia per pulirmi. Mica potevo saperlo, che erano lacrime di addio, altrimenti le avrei lasciate lì, a evaporare da sole. «Già torno» mi aveva sussurrato all’orecchio. «Già torno». Ma era passato un compleanno, poi due, e lei non era tornata. Solo il suo profumo aveva resistito per un po’alla sua assenza. Una sinfonia di fiori di campo, muschio, salsedine. Di quelle cose che chi come me non è mai uscito dal Quartiere può solo immaginare. Mi ero portato nel letto il suo cuscino, per affondarci la faccia quando ero troppo triste. All’inizio sognavo il mare, le distese di margherite, gli eucalipti giganteschi che ondeggiavano al vento. Poi anche il profumo si era arreso, affievolito per la lontananza, e infine era scomparso. E i sogni erano stati sostituiti da colate di cemento, l’unica realtà che avessi mai conosciuto.
 
Era il terzo agosto, senza di lei. Perciò, quando lo sentii di nuovo, quell’odore, non mi sembrò subito così familiare. Anzi, all’inizio stentai a riconoscere le note floreali dei suoi abbracci, il sentore d’acqua salata come le sue lacrime, la fragranza di bosco, in sottofondo. Fu il cuore ad accorgersene, prima che la mente. Con la schiena contro il muro, girai la testa di scatto a destra e a sinistra, cercando con lo sguardo ciò che l’olfatto richiamava alla memoria. 

E la vidi. La creatura più bella sulla quale i miei occhi si fossero mai posati. Scese da una uno rossa, insieme a una vecchia con i capelli bianchi raccolti sotto un fazzoletto di stoffa gialla. Trascinava una grossa valigia tenuta insieme da un pezzo di spago. Poteva avere i miei anni, forse meno. Mi sorrise, quando mi passò di fronte, la treccia bionda le ondeggiò sulle spalle. Scomparì dietro uno dei tanti portoni tutti uguali, lo stesso che aveva inghiottito la mia vita fino a quel momento; quello da cui mia madre era uscita dalla mia esistenza per non farci più ritorno. Nell’aria tremolante, la sua figura mi apparse fragile e provai l’impulso di stringerla forte tra le braccia, di ripararla dalla grettezza del mondo, di scuoterla e di metterla in guardia, scappa scappa, le avrei voluto dire, scappa ora che sei in tempo! Non sapevo, allora, che un giorno l’avrei sposata. E a dodici anni, non potevo conoscere l’amore. Ai Quartieri la gente stava insieme per necessità, per solitudine, per paura. Mai per sentimento. Era il bitume, li teneva incollati, incapaci di emanciparsi dal suolo nel quale erano nati e stavano lentamente e inesorabilmente rovinando.
 
D’improvviso montò dentro di me il desiderio irrefrenabile di correre. Mi ritrovai al centro della strada, e quella voglia fortissima di piangere e gridare mi tolse quasi il respiro. Non avevo mai pregato, eppure mi inginocchiai. Ero furioso. Con mia madre, con mio padre, con me stesso. Con Dio. La crepa era lì da tempo ma non l’avevo mai notata, confusa com’era tra le altre buche e i calcinacci. Al suo interno, una timida margherita. Un seme, un piccolo fottutissimo seme aveva deciso di germogliare tra le rughe più profonde della città, tra i reietti. Dove non può nascere niente di buono. Accarezzai il bocciolo ancora chiuso. L’avrei innaffiato, l’indomani. Si sarebbe schiuso. Forse, con un po’ di coraggio, avrei portato la nuova ospite a vederlo.
 
E le avrei detto che, a volte, l’amore può nascere anche sotto strati d’asfalto.

Una risposta a “Strati d’asfalto di Maena Delrio”

  1. Maena, che dire, ei meravigliosamente delicata nel raccontare la vita, anche quando è cupa e buia, ha sempre un domani che si rinnova nel bene. Belo, bello, bello. Mi hai commosso, come sempre.

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