Soluzioni di Francesco Gallo

Soluzioni

Tema: noir

Autore: Francesco Gallo

immagine tratta da pixabay
…penso che, alla fine, abbia vinto la paura.
 
All’improvviso il vento aveva cambiato direzione. Veniva ora da nord, all’inizio a folate rabbiose, poi violento, freddo, con un mugghio continuo. Qualcosa di terribile stava per accadere. Il sole, ormai all’orizzonte, sembrava dar fuoco al bosco.
«È meglio che rientri» pensai.
Dopo la vendemmia, nella vigna, per sistemarla, c’era ancora molto da sudare. Scrollai le spalle.
«Mi farò aiutare.»
Foglie e polvere rotolavano fra la casa e la rimessa, in corsa sullo stradone di pietre, verso lo stagno. Sonia, da sotto il porticato, agitò un braccio e poi entrò in casa. Il camino fumava, avrei certamente trovato un buon tepore. Poggiai gli strumenti di lavoro al muretto, tirai su le maniche della camicia, mi guardai le unghie scheggiate. Pressoché sotto il rubinetto, con tinte che si combinavano con i grigi del cemento, confondendosi, occupava un angolo della fontana, eppure vistosa per l’ombra che circondava le sue forme arrotondate; quasi fosse lì ad attendermi in quel tratto del giardino, così, immobile. Sorpreso, mi attesi uno scatto, istintivo per la salvezza di entrambi, ma, la scossa che avvertii nella nuca, mi impalò a guardarla; e la testa di lei, seducente, ben accolta nel resto del corpo -mi apparve bello-, disposta di sghembo e rivolta verso il basso, soltanto mostrò il restringersi dorato dell’occhio sinistro, come fessura crudele. Il gocciolio aveva trasformato in lumacature il muschio nella vasca; il vento strappava le ultime ortensie rinsecchite, alte sui muretti di pietra. Fermi, immerso ognuno nella sua solitudine animale. Il distacco remoto dalla natura, l’essere sempre più chiusi nei propri confini identitari, ostili ad ogni contaminazione, ci ha reso più esposti a ravvisare il nemico nell’estraneo, a reagire in modi estremi, come sopraffatti dalla paura: si scopre di avere perduto l’originaria scaltrezza negli incontri con le altre creature della terra, si teme l’arrivo della belva straniera e si dimentica il predatore più pericoloso, quello socchiuso in noi, nelle nostre tenebre, capace a far male, a uccidere; balordo da far morire anche sé stesso. Sentivo la paura, ma non sapevo, con certezza, a chi appartenesse; sapevo invece di non voler guardare, e sapevo anche di dover guardare, perché tutto può succedere in qualunque momento. Il canto del gallo risuonò proprio in quell’istante, e rimbalzò dritto in me, come un fuso, a ricomporre il filo di una trama, -sì, perché questo incontro feroce accadde dopo- quasi a intrecciarsi agli avvenimenti e ai ricordi di questa stessa estate, al Pian della gleba, lassù, sui sentieri delle incisioni rupestri di millanni fa.
 
A un certo punto lei aveva detto: «Quanti morti ci furono in questi luoghi. Da quei torrioni, proprio dove c’è l’antica pietra sacrificale, i partigiani controllavano i valichi, e i nazisti bruciarono tutto nel paese. Ci furono tante brutte storie allora. Dalle nostre parti la vita non è mai stata semplice». «Semplice?» l’interruppi con acredine «Forse, non lo è stata nemmeno dalle altre parti».
 
Non ci vedevamo da due mesi; preferivamo entrambi non ricordarne il motivo, così non ne parlavamo. Discutevamo d’altro.
 
Eravamo nella vecchia cascina, al primo piano, gli occhi fissi giù nella vallata. Il sole estivo infiacchiva il verde dei prati, degradanti tra pianori e pareti a picco. E pensai ai tratturi che dalla costiera scendevano nelle piccole insenature, al mare, fino agli scogli; nel mio sud, così lontano. I vestiti erano sulla sedia e sul pavimento in legno; Gemma portò le mie mani al seno, i suoi capelli profumavano di lavanda, emise un piccolo sospiro con il naso, sorridendo mi strinse a sé, e gli occhi si socchiusero in una lama verde, sottile, che luccicava in briciole piccole di oro. Dalle imposte accostate arrivava un buon odore d’erba tagliata; fuori, il frinire delle cicale faceva da contrappunto, continuo fino all’imbrunire.
 
«È la nostra faccenda che non è semplice. Forse è a questo che pensavo prima… è questo che volevo dire. Quando siamo insieme sembriamo due animali», disse, «sempre a nascondersi. Siamo due serpenti, questo siamo…». Respira, poi continua: «…due animali flessuosi».
 
E rimase pensierosa.
 
«Avvinghiati, già… non una scelta… come un destino; invece di svincolarsi e scappare» dissi io.
 
Fu allora che dalla malga si sentì il canto del gallo, insistente.
 
«Altrimenti, lasciami volare» disse infine, con unzione «ho paura».
 
Era verosimile. La verità è che lei avrebbe dovuto andare via ed io non avrei dovuto fare nulla per trattenerla. Come deve essere. Presi la zappa e la tirai giù, come una scure, su quella vipera. Divenne un cencio, spoglio di ogni forma. Ho scavato una buca profonda, l’ho deposta dentro e l’ho ricoperta, con cura. Un lampo attraversa il cielo, mi avvio verso casa; laggiù il porticato è grondante di luce, guardo in alto; un cielo che diventa sempre più basso, oscuro, cieco ormai, senza fessure.

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