Nessuna sponda di Maena Delrio

Nessuna sponda

Tema: un urlo in mezzo al mare

Autore: Maena Delrio

immagine tratta da web

Acqua calma, piatta. Talmente limpida, eppure non si vede il fondo. Il baratro è nero pece. Nemmeno un alito di vento a increspare la superficie.

Hai pregato. Io lo so che l’hai fatto. Prima di cominciare ad avvertire la sete, prima che le croste sulla bocca t’impedissero di articolare le parole, prima che le piaghe sulla schiena fossero talmente profonde da impedirti un movimento, ti sei inginocchiato sul fondo della tua imbarcazione e hai rivolto lo sguardo al cielo. Il sole ti ha accecato, ti ha ferito gli occhi. Cosa si prova ad aspettare la fine?

Mi chiedo quale sia stato il momento in cui hai perso la speranza. Forse hai intravisto una nave, un miraggio simile a un’oasi nel deserto. Hai gridato, ti sei sbracciato. Avresti nuotato per tentare di raggiungerla, ma non ne sei in grado. Conosci il tuo limite, ne sei pienamente consapevole. Nessuno te lo aveva insegnato, nel villaggio.

Ti vedo camminare, ragazzino, tra la polvere e le macerie. Ti hanno messo in mano un fucile e ti hanno detto di sparare ai tuoi simili. Sono gli stessi che hanno ucciso tua madre, le tue sorelle. Tu, invece, sei riuscito a fuggire.

La tempesta di sabbia t’investe, ti ripari dietro un cespuglio, a lato della strada. Hai fame, ma il tuo desiderio di libertà è più forte dei bisogni primari. Quando arrivi alla città sei un mucchietto invisibile di stracci. Meglio, pensi. Non c’è vergogna, se non ti vedono.

Ti confondi tra la folla e la spazzatura. Il tuo odore racconta la paura che anima il tuo sguardo, se qualcuno ti posa gli occhi addosso. Tua madre ti aveva cucito una tasca interna dentro la manica della camicia, che ora ti sta stretta. Al pensiero, i tuoi occhi vorrebbero piangere. Non riesci, ti fanno male, insisti e digrigni i denti. Che figlio ingrato, a non versare una lacrima per lei. Che figlio da poco, uno che è rimasto nascosto mentre le strappavano la lunga gonna con la roncola e la penetravano a turno, con un lungo bastone, prima di impalarla in mezzo al capanno.

Forse non eri tu, è il ricordo di un altro. Il bambino nascosto è morto, lo giureresti, nel tentativo di difenderla. Ci sono dei soldi, nella tasca. Bisogna proteggerli bene, ha detto lei. Una parte l’hai usata per mangiare, l’altra non basterà.

Un uomo bianco ti fa un segno con il dito. Ti ha visto, nonostante il tuo mimetizzarti nell’ambiente. Ha la risposta che cerchi? Ti porta dietro un edificio. Il vicolo è in ombra, puzza di urina e vomito. Si cala i pantaloni. Tu sai cosa fare. Te lo hanno spiegato i soldati, prima di metterti il fucile in mano, dopo averti riempito di botte. Quando hai finito, ti dà una banconota. Allunga la mano per toccarti i capelli, un gesto d’affetto. Poi il disgusto prevale e va via.

Mentalmente conti quante volte dovrai farlo, prima di poterti imbarcare. Eri bravo in matematica, a scuola. Dal villaggio alla capitale percorrevi sette chilometri di corsa, pur di arrivare in tempo. Eri più veloce di tutti. Bolt, ti chiamavano, prima che partissi, a nove anni. Ora ne hai sedici. Sei veloce anche adesso, mentre corri in una notte senza stelle verso il punto che ti hanno indicato gli scafisti.

C’è un gommone, già semi sommerso nell’acqua, sembra curvo al pensiero del peso che dovrà portare. Non sono solo i corpi a incidere sul totale, ma le speranze, ben più gravi di ossa e carne. Che fortuna, pensi mentre sali a bordo, che destino roseo se nessuna delle guardie lungo la strada ha potuto vederti, e fermarti!

C’è una strana calma, intorno. Il respiro della gente è soffocato. Eppure, in mezzo al mare, nessuno può sentirvi. Qualcuno ti parla, sussurra, non ascolti. Non guardi le facce, sono specchi che raccontano la tua stessa sofferenza. Riconosceresti certamente ciò da cui stai scappando. Verresti assalito dall’ansia. Si sta tutti compressi.

Da quanti giorni state galleggiando a pelo d’acqua? Non sapresti dirlo con precisione. Uno o dieci o cento, che differenza più fare? Lentamente, morite. Il motore è affondato, insieme a esso le pedine nere di una enorme scacchiera di flutti, mangiate a una a una da un alfiere vestito di bianco, i cui raggi trasversali fendono l’aria dall’alto, bruciano la pelle; costringono a gettarsi tra le onde, a bere il liquido salato tutto intorno e sotto di voi, del quale non si vede la fine. Tu sei l’ultimo. Resisti.

Ti sarai chiesto se valesse la pena. Non ti sei arreso, altrimenti avresti tentato di affogare, per mettere fine alla sofferenza. Invece sei rimasto sul gommone, sospeso a metà nell’abisso, aggrappato nel tentativo disperato di respirare la libertà agognata. L’inferno non ha sponde a cui afferrarsi. Quando il cuore si è fermato, dopo la lunga agonia, è stato un sollievo.

La tua immagine è stata catturata da un pilota, mentre perlustrava in volo quella fetta di mare. È rimbalzata sui giornali di tutto il mondo, ma tu non potrai vederla. Sei rimasto lì, a fare da cibo per i pesci, insieme alle tue illusioni.

Che rumore fa un corpo che si decompone? Il tuo silenzio è un urlo in mezzo al mare.

Una risposta a “Nessuna sponda di Maena Delrio”

  1. Straordinariamente toccante, bello e crudele nella sua verità. Maena sai scrivere divinamente e mi sono venuti i brividi tanto sono entrata nel dramma di questa storia.

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