In vino veritas di Maena Delrio

In vino veritas

Tema: fantasy

Autore: Maena Delrio

immagine tratta da web

Testo fuori gara

«Gibba, vieni!»

Il topo si volse di scatto, fiutò l’aria e fece vibrare i baffi dalla radice alle punte.

«Corri! Altrimenti ti lascio indietro!»

E si infilò in un buco alla base del muro.
Gibba fece appena in tempo a vedere la coda che scompariva nel buio.

«Stà a vedere che quel rattaccio mi lascia davvero da solo!» squittì, mentre raggiungeva d’un balzo l’imbocco dello stretto tunnel, e ci si intrufolò a sua volta. Conosceva Betto da quando erano ancora creaturine imberbi e rosee, tanto minuti da stare comodamente dentro un ditale. Fin da piccolo, il sorcio aveva manifestato un’indole particolare, libertina e priva di qualsiasi limite. La comunità aveva sempre criticato quel genere di comportamenti.

«È pericoloso per il collettivo! Prudenza, ci vuole!» dicevano i vecchi, additandolo con le lunghe zampette artigliate e scuotendo le teste Canute «finirà per farci ammazzare o per ammazzarsi lui!»

Solo Gibba continuava ad andargli dietro. Era affascinato dalla totale mancanza di paura dell’amico, dalla spensieratezza con cui affrontava le giornate. Una volta aveva chiesto a Betto cosa lo spingesse a correre sul filo del rasoio, a tentare imprese sempre più difficili. Lui non aveva saputo rispondere, aveva piegato le orecchie e sollevato il muso, così Gibba aveva capito che, forse, nemmeno l’amico stesso conosceva le cause di quel comportamento così bizzarro. Perciò, da quel giorno aveva preso a seguirlo senza fare domande, più che altro per controllare che non si mettesse seriamente nei guai.

Così, anche quella sera sgusciò dentro il buco e raggiunse Betto, dall’altra parte del muro, chiedendosi dove l’avrebbe portato. Sbucò in una cantina immensa. L’odore di muffa e umidità si mescolava a quello di legno delle enormi botti di rovere che occupavano l’intero perimetro della stanza; e un altro odore, pungente, permeava l’aria, tanto che a Gibba venne un capogiro, quando lo fiutò per la prima volta. Betto, di fronte a lui, gli dava le spalle, immobile. Quando il topo gli sfiorò la coda, trasalì.
 
«Ma sei scemo, Gibba? Mi vuoi far morire d’infarto?» squittì, e saltò su un rubinetto che fuoriusciva alla base di un grossa botte scura. Poi avvolse le zampette attorno alla saracinesca, e fece forza. Il meccanismo non si mosse. «Dai, cretino, vieni a darmi una mano!»
Gibba si mise a fare pressione dall’altro lato, e spinse con tutta l’energia delle sue zampette. «Dai, dai!» lo incitava Betto, esaltato «vedrai che bella bevuta!»
 
Proprio mentre il topo stava per esaurire ogni risorsa, la manopola cedette e si mosse impercettibilmente. Ma tanto bastò perché cominciasse a strillare un fluido denso e scuro, simile a sangue. Perle color borgogna caddero come una pioggia, spandendosi sul pavimento. A ogni goccia, un profumo intenso e fruttato si liberava nell’aria.
 
«Cos’è?» chiese Gibba, che non aveva mai sentito nulla di simile. «È vino!» replicò Betto, e subito scese in terra, pronto a non sprecare neppure un dito del prezioso liquido. Anche Gibba volle assaggiarlo, e fu subito ubriaco. Una sensazione di calore risalì dalle orecchie e gli fece rizzare i peli fino alla punta della coda. Poi gli venne da ridere, perché all’improvviso vedeva due
 
Betto di fronte a lui. «Amico, sei certo che questa roba non sia veleno?» biascicò ondeggiando, mantenendosi la pancia. Anche Betto rideva, e continuava a leccare il pavimento. «Macché, scemo d’un ratto. Questo è il nettare degli dei! Questa è roba che ti rimette in pace con il mondo!»
«Perché? Tu e il mondo non siete già in pace? Tu, il grande Betto, l’indomito!»
La domanda gli uscì spontanea, sarcastica, e subito se ne pentì, quando notò che l’amico si era fatto serio.
«Io… la pace non so cos’è. Il mondo? Lo sfido. Tu potresti pensare che non ho mai paura» rispose il sorcio, assumendo un’espressione tristissima, tanto che a Gibba venne quasi da piangere «invece è proprio perché ne ho tanta, che lo faccio. Affronto i miei timori per non esserne sopraffatto. Faccio la prima mossa perché almeno in quel caso sono io a decidere. E ogni volta che vinco, il brivido che provo è indescrivibile.»
 
Gibba annuì. Non aveva mai preso troppo sul serio le follie dell’amico, ma in quel momento provò per lui un grande rispetto. Una grossa blatta sgusciò fuori da sotto una botte e zigzagò tra la pozzanghera di vino e i sorci, che dimenticarono presto la conversazione e ricominciarono a ridere a crepapelle. Quando Gibba tornò sul prato, la luna splendeva alta nel cielo. L’aria fredda lo colpì in faccia con violenza, lo riportò immediatamente fuori dalla nebulosa alcolica che lo aveva avvolto nella cantina. Gli effetti residui della sbronza si dissolsero, lasciando al topo un leggero mal di testa. Betto rimase nella cantina con il vino, i mostri e le sue paure. Gibba non se ne preoccupò: avrebbe vinto lui, come ogni volta.

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