Il mio nome è Faida di Anna Ciraci

Il mio nome è Faida

Tema: 7 foto per 7 giorni – Beatrice Maccelli

 

“Il mio nome è Faida”.
Tutte le volte che ho pronunciato questa frase nella mia vita sono riuscita a percepire la perplessità del mio interlocutore che m’investiva come uno tsunami da fine del mondo.

Non ho mai compreso cosa passasse nella mente di mia madre quando compilò il certificato di nascita, ho sempre pensato che doveva aver avuto un travaglio allucinante tanto da meritarmi il suo odio profondo per tutta la vita, manifestandolo con l’uso spietato di cinque lettere: Faida.

Posso affermare, con sicurezza, che non mi sono di certo risparmiata neppure io a far pesare il mio disappunto in questa responsabilità che mi è stata riversata addosso: avevo cinque anni, l’ultimo anno di asilo, avevo costruito con le lego una sorta di rampa, non era alta, una piccola salita e due piani ben compatti e solidi. I miei compagni erano seduti e ordinati in mensa, pronti a consumare il loro pasto, io riuscì a sgattaiolare e incollare per terra la rampa davanti alla porta della cucina, proprio dove uscivano i carrelli pieni di quella sbobba che chiamavano cibo.

Quel giorno il menù offriva: minestra di uovo di gallina putrescente, pasta al ragù di simmenthal avariata e, per chi era indisposto, pasta slavata, con un fil di olio e grana a stagionatura zero, chi mai avrebbe potuto non smaniare per quel pasto delizioso se non io?

Fu uno spettacolo mai visto prima: il carrello s’impenna sopra la rampa, compie un giro a trecento sessanta gradi, piomba bollente sulla povera inserviente ignara ustionandola, si ribalta per terra, e continua a girare su stesso imbrattando le pareti di uovo marcio e ragù decomposto.

Ricordo che dal mio posto, raggiunto immediatamente e senza essere vista, potei distinguere l’opera d’arte che l’innocente marachella aveva creato sul muro: c’era l’ombra di un uomo, muscoloso e potente, con un forcone in mano e le fauci spalancate che si protraeva verso di me, nero ed incazzato.
Ho sognato l’uomo nero che mi rincorreva col tridente per anni, ad essere precisa fino all’età di sedici anni, età in cui per una gita scolastica mi recai a Firenze. Città stupenda da visitare, soprattutto a quel età, quando ti ritrovi rinchiusa in albergo alle nove di sera con la voglia imponente di spaccare il mondo.

Ovvio e naturale che scappai fuori con altri tre bontemponi della mia classe. Non avevo né bevuto ne fumato, ero già abbastanza fuori di mio da non osare sballarmi artificialmente, credo che questa sia stata l’unica mia salvezza quella sera.

Camminammo per ore, forse c’eravamo anche persi. Siamo sbucati in una piazza, c’era una fontana illuminata, l’ombra sul muro disegnava l’esatto contorno del demone col tridente che mi perseguitava, ero davanti all’uomo nero e incazzato di quel giorno all’asilo.

Fui colta da una rabbia improvvisa che mi fece perdere anche quel poco di senno che avevo nella mia strana testa, entrai nella fontana diretta, scalai quella figura muscolosa e prepotente fino ad arrivare a guardarlo dritto negli occhi e gli dissi: “Tu da ora in poi mi lascerai in pace, se no ritorno e ti scartavetro quella brutta faccia di marmo che ti ritrovi.”

Quella sera mi arrestarono, ero troppo presa dalla mia rivalsa sul mio incubo peggiore per accorgermi della ronda di sorveglianza che passava giusto in quel momento. Mi fecero scendere, mi misero le manette e mi portarono in questura.

La faccia della Professoressa di spagnolo che entrava in guardiola trapelante e struccata che sembrava avesse preso vent’anni in due ore fu una rivincita ancora più grande della vittoria contro anni di persecuzione.

Tornati a casa, la Preside chiamò i miei genitori, la sua sentenza fu: “Faida sospesa.”

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