Ho ancora il pallore della luna sul mio viso di Giuliana Guzzon

Ho ancora il pallore della luna sul mio viso

Tema: Come si cambia

Autore: Giuliana Guzzon

immagine tratta da artsikandar

dedicata ai miei nonni

PREMESSA: Sono cresciuta con i miei nonni e quando sono mancati non ho avuto il coraggio per tanti anni di tornare nel paesino dove ho vissuto con loro, la casa dell’infanzia rimaneva un luogo per me immortale, fino a quando…

Camminavo. Una mano stretta a pugno in una delle tasche, le unghie piantate nel palmo della mano fino a quasi farmi male, l’altra a cingere il collo rialzato del cappotto. Era quasi come sentirsi vecchi, presenti dall’inizio del mondo, passeggiare e nessuno per le strade, era il paese in cui vivevo un tempo, un mondo pieno di ricordi che si trascinavano nel vento. Avevo freddo. Tutto come morto.

Erano spariti anche gli spettri, non era rimasta nemmeno polvere d’ossa su cui muovere i miei passi, solo mura vuote, imbrattate dalle nostre presenze.

Non avrei dovuto essere qui.

Tutto come ricordavo. La casa bianca con le rose. Al sole mi aveva sempre fatto un altro effetto, avrebbe potuto quasi riflettersi sulle onde, se ci fosse stato il mare, e invece guardava le verdi fronde dove neri corvi gracchiavano le loro storie, macabri, forse perché i soli. Spariti anche i passeri con le loro ali bianche e grigie. C’era un cane che correva nel cortile, il suo padrone? Possibile che fosse solo?

No, non sono di qui, ero qui quando questo posto era ancora vivo, il mio nuovo mondo è ancora vivo, per poco forse, ma respira ancora, mentre questo sa di morte, per questo è così famigliare. Non sapevo quanto straziante potesse essere riguardare vecchi luoghi con un nuovo cuore.

Mi allontanai, piano, camminavo faticosamente, quasi il distacco fosse più che fisico, continuando a sentire lo scricchiolio dei sassi sotto le scarpe, come il sussurro languido di un morente. Era un rumore quasi costante, ma alterno, la cadenza dei miei passi, il fruscio del mio cappotto.

Non ero mai stata così agghiacciata, nemmeno in quella notte nel passato in cui ero uscita dal mio corpo per non sentire, un terrore antico marchiato nella mia coscienza, ma il tempo aveva ripreso a scorrere e tutto era finito, fermato in quel nuovo immoto fluire.

“Per sempre vuol dire mai più” diceva una canzone.

A me aveva fatto uno strano effetto, come un brivido freddo lungo la schiena, come se già immaginassi quale sarebbe stato il futuro e non l’avevo voluto.

Perché ero tornata? Non avrei dovuto lasciarmi trascinare dall’impulso, da quel sentimento improvviso e impetuoso così dannatamente fragile e radicalmente impresso dentro. Ma era qui che ero giunta e non volevo fuggire, non volevo volgere le spalle, non volevo tornare al mio presente senza aver prima guardato dritto in volto il mio passato.

Eppure, ricordavo tutto perfettamente.

Mi morsi le labbra e alla fine sentii sulla mia lingua il sapore del mio stesso sangue.
Il sangue, forse ero tornata per quello, il sangue di quelli con cui avevo vissuto, avevo riso, coloro che avevo amato, quelli che mi avevano capita, che mi avevano considerata, o forse per l’oblio e la pace: limpida come le acque pure, un foglio bianco su cui ricominciare a scrivere.

Come si cambia.
Continuai a camminare.
Deserto.

I pochi vecchi, che pigri uscivano nei cortili, si guardavano intorno, mi gettavano un’occhiata distratta, senza scrutare sotto l’onda morbida dei miei capelli chiari, senza nemmeno intuire la piega del mio triste sorriso dietro il collo rialzato del cappotto. Cos’ero venuta a cercare?

Davvero ero convinta che avrei ritrovato tutto come un tempo, persino l’ombra di me stessa, quella bambina incosciente, timida, capace di ridere e di perdersi l’istante dopo?

Mi guardai attorno. Il borgo. Il legno s’era fatto scuro, la vernice s’era scrostata e i muri di mattoni s’erano incupiti, la famigliarità di un luogo guardato attraverso nuovi occhi. Quanto tempo avevo trascorso in quello stesso posto? In compagnia di chi amavo? Con cui ridevo fino alle lacrime per qualche minuto per rintanarmi quello dopo nei miei pensieri inutili?

Scrutavo i loro occhi, spiavo i loro sorrisi, cercando di capire se erano felici. Parlavano, ridevano, si chinavano in avanti sul tavolo. Una nuova vita aveva preso forma, io. Avevo solo una decina d’anni ed ero parte di loro più di quanto lo fossi mai stata.

Feci una smorfia.
Attraverso il tempo e la distanza avevo solo rimpianti e quando le nebbie s’erano alzate fitte sulle acque immote delle mie paure, il desiderio di loro era stato più forte, una nostalgia acuta e pungente; la malia del ritorno. Ma ora non ero qui per questo, no!

Attraverso gli occhi della bambina, che sarebbe cresciuta come un mattone conforme al resto della struttura, protetta e sostenuta da essa, adesso sapevo perfettamente che non ero venuta per rimpiangere qualcosa, ma per cercare la parte di me che credevo morta e perduta per sempre.

Camminai spedita nella notte fredda e straniera.
Nel buio…
Baluginio di fioche luci, riverbero di gemme verdi e brividi sulla pelle.

Sentii quella specie di fitta dentro, come se qualcuno strizzasse i miei organi interni, e il mio sorriso tremò, ma non si ruppe.

 

2 Risposte a “Ho ancora il pallore della luna sul mio viso di Giuliana Guzzon”

  1. Grazie per ciò che hai scrityo avrei voluto conoscerli i miei nonni tre dei 4 non li ho conosciuti morti prima che io fossi nata. Una perdita nella vita di una persona.

  2. Le parole rievocano, come una folata di vento sulla pelle, lo stile gotico della Guzzon.
    Con lo stile espressivo che la caratterizza riesce a inglobare il lettore nella storia stessa, a sentire i profumi, guardare i colori, respirare le inquietudini e le speranze della protagonista, alla ricerca di se stessa nel passato.
    Ancora un’emozione, grazie Giuliana Guzzon.

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