Edom il rosso di Francesco Gallo

Edom il rosso

Tema: un senso

Autore: Francesco Gallo

immagine tratta da pixabay
E mi chiamavano Edom perché nacqui rossiccio, e sono un abile cacciatore. Un uomo della steppa. Quel profumo di mosto cotto e di puleggio, l’aroma di laser e di sfrondili li avvertii già dai margini del villaggio.
 
All’imbrunire, tornavo dalla caccia al cervo, avevo con me la preda, sfinito. Era il buon odore del condimento per le lenticchie. Lenticchie rosse sperai. Ero affamato e le sentivo già mie, in bocca, con quel loro gusto particolare, che accetta essenze e spezie, ma sa rimanere inconfondibile e gentile, e dolce eppure amaro se vuoi, incline finanche ad assecondare ogni tuo umore, come un amico sincero, inequivocabile, e buccia gentile al morso e delicata, che sa cederti non precipitosa la sua sapidità, liscia, tenera, simile a pelle di donna, e che quando, con i denti la frangi, con il contenuto ti riempie vieppiù la bocca, un soffio vellutato eppure tenace, saporoso, seducente, tale e quale il bacio dell’amata.
 
È questo che pregustavo avvicinandomi alla costruzione al centro del villaggio, la casa di Yishaq il silenzioso: il mio amato padre, il pacifico Isacco ormai completamente cieco. E in quell’aria di seduzione incantevole, con certezza, c’era la mano calcolatrice di mia madre. E, sicuramente, Yael, dai fianchi prosperosi, al mortaio con pepe, cumino, semi di coriandolo, menta, ruta, puleggio; e la dolce e ombratile Gavriela a macinare la radice del laser; e l’anziana Ruth ad aggiungere con sapienza alle spezie miele e aceto, a formare la salsa con olio verde e mosto cotto; ed Esther, provocante e nottambula, a tritare gli sfrondili e metterli a cuocere; e lei, Rebecca, mia madre, intenta a curare la cottura giusta e il momento e i modi in cui riunire gli ingredienti, e, come sempre, interessata a sorvegliare tutto; e, dovunque, un chiacchierio attento e festoso.
 
Quella sera nel villaggio c’era un silenzio completo, come se la notte fosse già arrivata, nessuno a venirmi incontro, tutti zitti quasi si attendesse un giudizio. Alla tavola c’era mio fratello, e io gli dissi: «Lasciami mangiare un po’ di questa minestra rossa perché io sono stremato». E Giacobbe disse: «Vendimi subito la tua primogenitura». Risposi: «Ecco, sono stanco, da morire; a che mi serve la primogenitura?» Giacobbe allora disse: «Giuramelo subito». Giurai e vendetti la primogenitura a Giacobbe. E Giacobbe mi diede il pane e la minestra di lenticchie; mangiai e bevvi, e poi, mi alzai e me ne andai. Ma non avevo affatto alcun disprezzo per la primogenitura.
 
E allorché, con l’inganno, Giacobbe mi carpì anche la benedizione di mio padre, e tutto si compì, a quanto pare, secondo il dettato sconcertante e misterioso del Signore – creda a questo chi può – io andai via per sempre, lontano dalle terre grasse e lontano dalla rugiada del cielo dall’alto. E dalle tentazioni della vendetta fratricida: non sparsi sangue, allora.
 
Lasciai il villaggio di Be’er Sheva e i pozzi di Shebu’a; con uno strappo doloroso mi separai dai miei ricordi e mi sistemai sulle montagne di Seir. Libero, e lontano da Giacobbe e dalla menzogna, e dalla violenza efferata dell’odio. Yael, Gavriela, Esther allietano ancora i miei giorni; vivo della mia spada; e la mia gente mi chiama con il mio vero nome: Esaù.
 
Il mio popolo emigrerà, colonizzerà terre fertili e le feconderà con il suo seme, suIl’altra sponda del mare. Moltissimi anni, secoli trascorreranno; pure, proprio da quelle terre, perviene un ricordo vivo di quell’antica città. È negli scritti di chi amo pensare sia un mio discendente, e nelle sue parole io ravviso tutta l’afflizione del mio distacco:
 
“…Intenta ad accumulare i suoi carati di perfezione, Bersabea crede virtù ciò che è ormai un cupo invasamento a riempire il vaso vuoto di se stessa; non sa che i suoi soli momenti d’abbandono generoso sono quelli dello staccare da sé, lasciar cadere, spandere. Pure, allo zenit di Bersabea gravita un corpo celeste che risplende di tutto il bene della città, racchiuso nel tesoro delle cose buttate via: un pianeta sventolante di scorze di patata, ombrelli sfondati, calze smesse, sfavillante di cocci di vetro, bottoni perduti, carte di cioccolatini, lastricato di biglietti del tram, ritagli d’unghie e di calli, gusci d’uovo. La città celeste è questa e nel suo cielo scorrono comete dalla lunga coda, emesse a roteare nello spazio dal solo atto libero e felice di cui sono capaci gli abitanti di Bersabea, città che solo quando caca non è avara calcolatrice interessata.” (Italo Calvino. Le città invisibili)

2 Risposte a “Edom il rosso di Francesco Gallo”

  1. Perbacco che racconto elaborato! avvincente ripasso religioso/storico di cui pochi hanno traccia così chiara e perfetta. Bello, disarmante, direi. Altissimo livello.

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