A pedalare sulle nuvole di Maena Delrio

A pedalare sulle nuvole

Tema: Paradiso

Miss Elisabeth era una signora di mezza età che abitava al numero dieci di Purple Avenue. Era l’ultima villetta in cima alla collina. Non si poteva dire che fosse simpatica: ogni gesto palesava una certa sociopatia, e la collocazione della sua abitazione contribuiva a creare un alone di mistero. Non era alta, aveva le gambe tozze e un accenno di gobba. Non era nemmeno bella, eppure i suoi occhi azzurri tradivano un certo non so che, un’alterigia e un portamento inusuali. Portava sempre dei buffi copricapo decorati con fiori finti o frutta, e immensi scialli d’angora confezionati a uncinetto dentro i quali si avvolgeva, scomparendo dietro pesanti strati di lana. Usciva di rado, e non rivolgeva la parola a nessuno. Per questo motivo mi stupii quando mi parlò, quel giorno. Era il 13 maggio 1987. Compivo dodici anni. I miei genitori mi avevano regalato una bicicletta rosa. E quale posto migliore per usarla, se non la discesa che dalla collina si snodava fino alla fine del quartiere? Dunque, ero intenta a controllare il funzionamento dei freni, quando la voce della vecchia mi fece trasalire. Non so perché mi fece paura, dato che aveva un timbro dolcissimo, ma… beh, era talmente insolito, e io ero dannatamente sciocca! In vicinato circolavano voci circa vicende accadute anni prima nella casa in cima al colle. Devo ammettere che miss Elisabeth come strega non mi aveva mai convinto, ma la suggestione è una lente subdola attraverso cui guardare il mondo. Comunque, torniamo ai fatti: Io sono lì che ammiro la mia bici, e alle spalle arriva lei. Mi volto e sono pronta a scappare via. La donna però tende le braccia: in mano ha una profumatissima torta di mele. Mi rivolge un sorriso e mi chiede se ho fame. Scuoto la testa, ma sono come paralizzata, e poi il dolce ha un così bell’aspetto! La vecchia mi porge nuovamente il vassoio: «Fa nulla. La mangerai dopo». Credo di essere cresciuta, la sera del mio compleanno. Non come quando le scarpe che ieri ti calzavano a pennello non ti stanno più, ma qualcosa di molto più simile a quando smetti di credere a babbo Natale. Divenni assidua frequentatrice di quella che fino a poco tempo prima pensavo fosse una casa degli orrori, e imparai quanto la solitudine sia una delle peggiori malattie del mondo. Arrivavo in sella alla bici all’ora del the. Mentre sgranocchiavo biscotti alla cannella e muffin di more, Elisabeth mi chiedeva della scuola, degli amici. Trovai in lei una confidente eccezionale: aveva sempre una parola gentile, lodava i miei successi e riusciva a smorzare i miei eccessi di furia. Poi cominciò a parlare di lei: la sua giovinezza, le rinunce alle quali aveva dovuto far fronte a causa delle responsabilità che le erano state imposte. Io l’ascoltavo rapita, perché mi sembrava la trama di un romanzo: aveva assunto il ruolo di bastone della vecchiaia degli anziani genitori; aveva smesso di studiare presto per aiutare il padre medico come segretaria; non si era sposata, perché il suo unico amore era morto in Francia durante la guerra. Quando era andata in pensione, aveva comprato la casa sulla collina. Era rimasta l’unica in vita della sua famiglia, e i nipoti si erano presto dimenticati di avere una zia in Purple Avenue. Così si era rinchiusa nella sua solitudine, finchè non ero arrivata io: il mio nome è Evelyn Rose, ma per lei ero” la sua Evelina”. Infine arrivò quella sera. Mi accingevo ad andare a casa ed ero già in sella alla bici, quando miss Elisabeth mi aveva detto:« Sai, Evelina, non ho mai imparato ad andare in bicicletta». E lo aveva detto in una maniera tale, e con tanta tristezza, che era stato come se il cuore mi venisse strappato via dal petto, dalla pena che provai. E fu per questo motivo, che le cedetti il manubrio. I suoi occhi brillarono di gratitudine, mentre saliva con la sua pesante mole sul mezzo, e si sistemava lo scialle. Avevo solo dodici anni. Non avrei mai pensato che quel gesto avrebbe avuto conseguenze fatali. Volevo solo farla felice. Chi era affacciato in quel momento su Purple Avenue, vide la sagoma di una vecchia signora con i riccioli bianchi che si agitavano al vento- il cappellino era volato via, coi suoi fiori e le sue decorazioni di frutta- , e un gran sorriso dipinto in faccia, mentre sfrecciava in sella a una bicicletta rosa, finendo dritta sopra la cancellata del parco est , all’incrocio di Smithstreet. Ero senza fiato quando la raggiunsi. I vicini, sopraggiunti prima di me, stavano provvedendo a coprirla, ma feci in tempo a vedere il suo viso. Sembrava felice. E anche se in seguito mi raccontarono che aveva avuto un colpo apoplettico che le aveva fatto contrarre i muscoli facciali –tanto che i parenti avevano preferito non esporre la salma in pubblico, dato che non s’era mai vista una morta ridente-, io sapevo che non era così. L’aveva desiderato per una vita intera, quel volo, ed era morta realizzandolo. Mi manca, la mia vecchia. Ma sono sicura che sia in Paradiso ora, magari col suo grande amore, a pedalare sulle nuvole.

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