Solo sabbia nelle mani di Allie Walker

Solo sabbia nelle mani di Allie Walker

(tratto da inedito in lavorazione)

Dopo il terzo scalino mi tirai su la gonna e la sottoveste e presi a salire i gradini della casa due a due. Mi piaceva sentire i riccioli sfiorare la fronte per poi ricadere con grazia sulla curva morbida del viso. Arrossii al pensiero del suo sguardo su di me. “presto…” mi dissi “è così presto… lo conosco da troppo poco tempo…”.
Ero senza fiato quando appoggiai la mano sulla superficie liscia di legno della grande ringhiera che correva lungo le scale. Il corrimano era lucido, scuro e correva assieme alla mia frenesia di raggiungere la cima. Mi fermai un attimo a seguirne la curva: era sinuoso, elegante, finemente cesellate le colonne portanti e così liscio quel cordolo duro sotto le mie mani tanto da esserne ammaliata. Un brivido mi attraversò mentre ancora un’immagine di lui mi passava davanti agli occhi. Fu solo un momento, un piccolo istante a rimuginare su quello sguardo che si era appoggiato alle mie labbra: una promessa o solo una mia inconsulta fantasia? C’era molto altro, invece. Ripresi a salire.
Quando fui alla fine della scalinata presi un respiro profondo, i seni si gonfiarono sotto il tessuto della camicetta, i capezzoli si inturgidirono. Mi morsi le labbra. Guardai la mia immagine riflessa allo specchio che si trovava appeso alla parete in cima alle scale. Un grande specchio antico, laccato di bianco, ma alquanto malandato. Si intravedevano le venature del legno e lo specchio aveva quelle “grinze” di un vissuto che io non conoscevo, ma potevo solo immaginare. Sulla consolle, appoggiata alla parete sotto lo specchio, un vaso di crisantemi rosa. Un colore così delicato che contrastava con il mio incarnato bello rosso, accaldato dalla corsa che avevo fatto prima di entrare in casa e poi su per quelle scale. Un altro respiro profondo cercando tra le screpolature dello specchio il mio sorriso ed ero pronta.
Il tappeto sotto i piedi nudi, un po’ consunto dal tempo, così familiare che potevo leggerci la storia della mia famiglia mi restituì un po’ di serenità. E dietro la porta, in fondo al corridoio, c’era lui che mi aspettava.
L’aprii subito. Era la stanza che mio padre aveva destinato a lui, arredata con indigenza e c’erano già le sue cose tutte in ordine. Un grande letto con tanti cuscini e un copriletto di raso viola faceva sfoggio di sé. Le tende, di un viola ancora più ricco, un broccato pesante intarsiato con dei fili dorati e una passamaneria, sempre dorata, che seguiva tutto il bordo, ostentavano la loro opulenza. Un grande specchio su una parete e una scrivania antica appoggiata alla parete adiacente completavano la ricchezza della stanza, che mio padre aveva sempre chiamato la “stanza dei broccoli”, anziché dei broccati, per prendere in giro mia madre. Sul pianale c’erano dei fogli scritti con una calligrafia fitta e regolare. Mi soffermai a sfiorarli. Lui, stranamente, non c’era. Provai a leggere ma mi risultò ostico capire, era una lingua che non conoscevo. Nella stanza c’era anche un camino, che era acceso e la legna crepitava finemente.
Il mio scialle, quello che avevo perso in giardino, era su una sedia e vicino c’era il suo mantello… Un mantello che mi ricordava il calore che avevo sentito quando lui me l’aveva appoggiato sulle spalle. Ma lui? Lui dov’era?
Udii un piccolo gemito, come un flebile lamento, provenire da dietro una porta a un lato del letto. Lo chiamai: <<Giacomo, sei lì?>>.
Nessuna risposta, ma ancora quel lamento. Corsi attraverso la stanza, afferrai la maniglia dorata spingendola verso il basso. Un click e la porta cedette alla mia leggera spinta. Il profumo stucchevole di fresie, assai pesante, riempiva l’aria. Non fui più io.
Mi sembrò di rivivere una scena già vista. Il corridoio in cui ero entrata era stretto e in fondo si intravedeva un’altra porta. Non c’erano finestre, ma solo dieci specchi decorati riccamente, cinque su una parete e altri cinque sull’altra. Gli specchi della parete di sinistra erano di fronte a dei candelabri sulla parete di destra che riprendevano la luce sprigionata dalle fiammelle tremolanti. E così gli specchi sulla parete di destra. Specchi e candele fino alla fine del corridoio dove c’era l’altra porta. Mi guardai i piedi, ancora nudi, e li vidi sparire nel buio.
Mi ricordai all’improvviso. L’avevo fatto tante volte quel percorso. Potevo camminare nel buio e avevo camminato così tante volte in quell’abisso sotto i miei piedi che mi ricordai un numero: 66. Sessantasei passi mi dividevano dalla porta all’altra estremità. Dimenticai completamente Giacomo. Dovevo raggiungere quella porta e salvarmi. Salvare loro.
Mi scostai dall’entrata che avevo appena superato, dove la luce del giorno, e con essa la vita, poteva superare e trapassare i pesanti vetri alle finestre e, contando, cominciai a camminare. Superai, uno dietro l’altro, gli specchi e le candele. Mentre passavo di fronte guardavo la mia immagine riflessa e poi mi giravo a soffiare sulle candele. Dovevo immergermi nel buio, solo così potevo salvarmi e salvare loro.
Esitai sulla soglia della porta in fondo al corridoio, il cuore batteva così veloce nel petto che pensavo potesse esplodere da un momento all’altro. Ingoiai quel poco di saliva che avevo in bocca, mi leccai il labbro inferiore e sentii il gusto metallico del sangue, ricordandomi di essermi ferita La guancia sanguinava ancora. Da quello squarcio sulla guancia destra, abbastanza profonda da poterci mettere un dito, colava lentamente il sangue che si rapprendeva altrettanto lentamente. Mi sfregai la guancia, prima con le dita e poi con l’avambraccio.
Udii un grido e feci un balzo all’indietro. Non potevo nascondermi nella stanza con la finestra che avevo appena lasciato, lui mi avrebbe trovato, avrebbe trovato loro. Pensai un istante al da farsi: o tornavo indietro e nella luce sarei stata scoperta oppure…. L’unica possibilità era andare avanti.
Smorzai il grido che spuntò dalle labbra involontariamente, ricordandomi la morte, Giacomo era morto. I miei amici erano morti. Le mie amiche portate via. Mi spinsi nel buio. Ansimante per lo sforzo, aprii la porta e me la richiusi alle spalle. Tenevo gli occhi chiusi, il cuore non la smetteva di battere all’impazzata. Tra i miei respiri giurai di aver sentito un respiro più basso. Come un soffio di una vita che si estingue o un soffio di una vita su una fiamma… Non capivo. Avevo paura e non capivo. Sapevo solo che dovevo salvarle. E salvare me.
La mente correva dietro ai ricordi e, mentre tremavo nel buio, le immagini mi balenavano in testa: i fiumi cremisi di sangue, i rivoli di sudore che solleticavano la pelle, la mia, quella di Gaia che mi teneva la mano. La presa si era allentata mentre lei scivolava via dalle mie braccia. Io scivolavo da una parte e lei da un’altra. E poi l’urlo di Paola e la sequela di insulti di un uomo, il pestaggio. E così anche Gloria, Sonia e Fiamma. Nessuno più tra le mie braccia. Riuscii ad alzarmi e correre e poi lui con il mantello. Era tutto molto confuso, ma c’era la luce. E poi ero di nuovo nel buio. Avevo vissuto così tante volte quella scena che mi sembrava sempre di ricominciare da capo. E una lacrima sulla pelle agonizzante scese a rigarmi il volto, scese sullo squarcio sulla guancia e il sangue gocciolò sul vestito. Sembrava che ogni goccia facesse un rumore assordante, ma era solo la mia mente confusa e arrovellata nei ricordi che continuavo a rivivere come un loop impazzito.
Ancora immagini: un auto, lui, le donne accatastate sul van, una lattina di benzina e il fuoco. Po la luce, il panico, la caccia e la paura, i rumori e le parole terribili. Ricordai il suo sguardo quando alla prima occasione riuscii a fuggire e andare verso la casa, poi salire le scale e trovarmi in una stanza, poi un corridoio con le candele e gli specchi e poi il buio. Era una lotta continua, come tornavo nella luce c’era lui ad aspettarmi. E mi rifugiavo nel buio e nei riflessi, negli specchi non avrebbe potuto prendermi e non avrebbe preso loro.
Mi sfuggì ancora un gemito, la gola sembrava sigillare la saliva in un blocco che si rapprendeva e non lasciava uscire suoni. Il suono del mio urlo era solo nella mia testa e minacciava di farmi esplodere il cranio. Stringendo i capelli fra le mani sentii di nuovo quel sospiro, poi un respiro e poi ancora un altro. Mi accucciai piagnucolando.
Poi aprii gli occhi e non capivo perché ero li avevo aperti. Volevo tenerli chiusi sul buio, ma sembrava non riuscissi a controllare i miei stessi pensieri. Il mio buio era migliore di quello che vedevo a occhi aperti. Forse era stata la paura di ciò che era attorno a me, o forse la necessità di mettere spazio tra me e quel respiro che sentivo, o forse era l’istinto di allontanarmi dagli orrori che sapevo mi aspettavano nel buio o, ancora, il suono appena percettibile di un altro pianto che…

47 Risposte a “Solo sabbia nelle mani di Allie Walker”

  1. Le votazioni si sono chiuse domenica, 23 novembre, alle ore 23.59

  2. Mi è piaciuto molto quello che ha scritto Allie, spero che il romanzo abbia successo perchè questa Donna lo merita.

  3. Emozioni a non finire in questo breve testo, immagino che il resto sia della stessa qualità

  4. Molto bello. Spero che presto il romanzo venga terminato.

  5. Dopo aver letto questo brano, che ha suscitato in me tante cose, attendo con ansia l’uscita di tutto il resto. Mi pare di aver capito che c’è molto altro.

  6. È facile immergersi e lasciarsi trasportare dalle tue parole,Grazie

  7. Voto questo testo

    Descrizione coinvolgente, emotivamente trascina verso un finale che ci lascia sospesi, bisognerà aspettare. Tanto basta a dare sapore alla storia.

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