Occhi blu di Massimo Licari

Occhi blu di Massimo Licari

Genere: Realistico/Fantascienza/Umoristico

Allora, fatemi raccontare questa storia.
Ultimamente mi avete bistrattato fin troppo!
È vero, a volte esagero quando ho bevuto un goccio, e qualche volta ho raccontato qualche panzana. Ma questa volta la storia che voglio raccontarvi è vera, lo giuro su quanto ho di più caro: il boccale in peltro marcato Guiness.
È successo tutto qualche giorno fa. Beh, forse qualche settimana fa.
Ma in fondo, che importa?
La vidi seduta al bar Livio. Si, quello dove ho il conto aperto.
Se non avessi avuto tre birre medie nello stomaco, probabilmente non mi sarei nemmeno accorto di lei. L’alcol in corpo ha un effetto strano su di me: acuisce i sensi e stimola la curiosità. Soprattutto attenua molto la mia tendenza ad isolarmi, facendomi diventare audace e disinvolto.
Lei sembrava fuori posto, con lo sguardo perso nel vuoto e una mezza tazzina di caffè abbandonata davanti a sé. Non era solo lo sguardo, ma tutto l’insieme che la rendevano sfuggente, quasi vacua. Eppure non era una brutta ragazza, tutt’altro.
I lineamenti regolari, gli occhi color del cielo e le labbra rosse che ogni tanto si mordicchiava, la rendevano attraente, ma nessuno sembrava accorgersi di lei.
Se ne stava lì, apparentemente disinteressata a qualsiasi cosa la circondasse.
La fissai a lungo, ma lei non sembrò accorgersi del mio sguardo che si poggiava sul suo viso, che le sfiorava la pelle abbronzata, che accarezzava le sue labbra e che si soffermava sulle mani che continuava a stropicciarsi.
Più la osservavo e più dovevo riconoscere che era davvero bella.
Certo, c’erano già tre birre in pancia, e la quarta stava cominciando a far compagnia alle altre.
Ma l’alcol non mi ha mai tradito in fatto di ragazze. Non ricordo di essermi mai svegliato accanto a una ragazza che non mi piacesse almeno un po’. Ammetto, molte volte non sapevo come c’ero finito in quel posto e, soprattutto, non ricordavo cosa fosse successo la sera prima. Ma ho sempre pensato che ritrovarmi la mattina nel letto di una ragazza fosse un indizio piuttosto evidente di quello che poteva essere successo.
Si, a volte penso di essermi perso alcuni pezzi della mia vita, ma questo è un altro discorso e non è di questo che voglio parlarvi.
Torniamo a quella sera.
Pensai che stesse aspettando qualcuno, forse il suo ragazzo.
Del resto che cosa ci fa una ragazza sola in un bar di sbevazzoni alle undici di sera?
Finii la quarta pinta di birra, ma nessuno si era ancora presentato al tavolino di quella che avevo ormai battezzato Occhi blu.
Decisi in quel momento che non si poteva lasciar sola una ragazza così. Non è giusto.
Così ordinai la quinta bionda e mi avviai, barcollando un po’, verso di lei.
“Posso sedermi?” le chiesi.
Lei sussultò per la richiesta inaspettata e mi fissò muta.
Se avessi avuto un tasso alcolico più basso, mi sarei voltato e sarei tornato al banco, consolandomi con quanto era rimasto nel boccale. Ma, come dicevo, in quelle condizioni divento audace.
Così la fissai a mia volta, come se fossimo i finalisti della gara “vediamo chi abbassa lo sguardo per primo”.
Non vinse nessuno dei due, ma lei fece cenno con la mano che potevo accomodarmi, cosa che non mi feci ripetere due volte.
“Mi chiamo Daniele” le dissi allungando la mano.
Lei la strinse, senza particolare vigore, ma senza nemmeno farmi pensare che mi avesse porto una mozzarella invece che una mano.
Non disse nulla, ma continuò a fissarmi.
“Scusami se mi sono preso questa libertà” cominciai a dire, “ma ultimamente sto cercando di essere un credente più convinto e ho pensato che avrei commesso un peccato mortale lasciando una così bella ragazza tutta sola in questo postaccio”.
Dissi tutto questo in un fiato, senza nemmeno biascicare.
Volevo colpirla, dare l’impressione di essere uno simpatico, capace di far ridere le ragazze. Del resto sono molte a sostenere che l’uomo ideale è quello capace di farle ridere.
Ma lei continuò a fissarmi, come se avesse avuto di fronte a sé una scimmia impertinente.
Sarei dovuto andar via, ma era una scommessa con me stesso e non avevo intenzione di pagare.
Così, con la stessa aria di uno che ha appena imbucato tre palline nelle buche di un bigliardo, continuai.
“Aspetti qualcuno?”
Nessuna risposta
“Posso offrirti qualcosa da bere?”
Né sì né no.
E così via, domande a raffica e risposte zero.
Alla fine mi battei una mano sulla fronte, colpito da un’improvvisa folgorazione.
“Ma capisci la mia lingua?”
Fu a quel punto che lei rispose con un sommesso “Si”.
Mi commossi.
Aveva finalmente risposto! A quel punto le mie chance di riuscire a rimorchiarla secondo me erano notevolmente salite.
Si, vabbè, non sapevo ancora se stesse aspettando il suo ragazzo, ma insomma! Un problema alla volta.
Decisi di procedere con cautela. Non si sarebbe messa a fare un discorso, certo, ma la prima parola l’aveva pronunciata. Un buon inizio.
Ordinai una rossa media, giusto per darmi un po’ di tono.
Poi mi ricordai di lei, che mi fissava.
“Bevi qualcosa anche tu?” gli chiesi.
Le scosse la testa in segno di diniego.
“Sei di queste parti?” ripresi con un aria che volevo fosse disinvolta, interessata, stai tranquilla non ti tocco. A meno che tu non voglia, ma questo non volevo trasmetterglielo: troppo presto.
Insomma, assunsi quell’espressione.
No, adesso non riesco a farvela vedere in pratica, avrei bisogno di qualche birra.
E poi non siamo mica al bar! Leggete e smettetela di interrompere.
“No” mi rispose lei. Un’altra parola! Se fossi riuscito a farle dire un altro si o no, avrei potuto raccontare al Gigi di aver fatto una bella conversazione, quindi mi impegnai.
“E da dove vieni?”
“Da lontano”.
“Ma questo lontano, quanto è lontano?”
“Non capiresti” mi disse enigmatica.
“Provaci” gli dissi. E in quel momento mi battei una mano sulla spalla. “Bravo! La stai coinvolgendo”, pensai.
“Sono qui perché devo scontare la condanna”.
“Qui nel bar?” dissi stupito da quella informazione.
Aguzzai gli occhi in cerca delle manette, o di qualche catena che forse le serrava una caviglia.
Guardai gli avventori del bar, ma non mi sembrava di aver visto un poliziotto.
Poi sorrisi a me stesso, dandomi dell’idiota. Adesso c’erano sistemi per controllare i galeotti a distanza. Forse aveva qualche coso appiccicato da qualche parte di cui non mi ero accorto…
“Volevo dire che sono in questa realtà per scontare una condanna” mi disse lei.
“In questa realtà?” dissi con un’aria non meno stupita.
Ecco, la solita fortuna che bacia i belli non mi aveva baciato, anche se penso di non essere niente male. O forse non è la fortuna che bacia i belli?
Insomma, non fatemi divagare.
Pensai che mi ero imbattuto in una un po’ spostata.
Però era carina e la voce era sensuale.
“Correrò il rischio” pensai, “avrò qualcosa da raccontare al Gigi”.
“Credo di non capire” dissi.
Poi per schiarirmi le idee ordinai una bionda. Piccola, però. Non volevo dare l’aria di quello che esagera un po’ nel bere.
“Io non vivo in questa realtà, ma in una realtà parallela, che è molto più avanti rispetto a questo mondo. Ho fatto una cazzata e il consiglio dei nove ha deciso di condannarmi al confino in questa realtà per sei mesi”.
“Realtà parallela? Consiglio dei nove? Questa è proprio spostata!” pensai. Ma non volevo farle capire a cosa stavo pensando. Non avevo ancora perso la speranza di rimorchiarla.
“Ho capito” le dissi, assumendo un’aria che volevo esprimesse: “bambola, parli strano, ma io la so lunga. Non temere, con me vai tranquilla”.
Però non ottenni il risultato sperato, perché lei si irrigidì.
“Non posso parlare di questa cosa. Potrebbero allungare la mia pena e mandarmi in un luogo ancora peggiore di questo, dove hanno appena superato il medioevo” mi disse allarmata.
“Con me puoi stare tranquilla” le dissi “so tenere la bocca chiusa”.
E per dimostrarglielo, ordinai un’altra rossa. Media. La bocca bisogna chiuderla per bene!
Lei mi fissò senza dire altro e io rispettai quel momento di silenzio.
“Appena finisco questa pinta, mi spieghi bene questa storia” le dissi.
A quel punto non so di preciso cosa successe, ma la vista si annebbiò un po’.
Pensai che se mi fossi preso un minuto di pausa, sarei tornato in forma, pronto per il seguito della serata.
“Un minuto” biascicai mentre appoggiavo la testa sul tavolo.
Quando rialzai lo sguardo, Livio stava chiudendo il bar.
“Vai a casa, vecchio ubriacone” mi disse.
Guardai l’orologio appeso sopra il bancone che segnava le tre.
Occhi blu non c’era più (bella la rima, vero?).
Sono tornato al bar tutte le sere, ma non l’ho più rivista.
Peccato, era proprio una ragazza carina.

11 Risposte a “Occhi blu di Massimo Licari”

  1. Voto questo testo.
    Un bel racconto, di un autore di talento

  2. Voto questo testo.
    Divertente e con una bella atmosfera… del resto in questo tipo di situazioni, ti districhi sempre decisamente bene. Bravo massimo!

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