Cappio: una fine e un inizio di Sauro Nieddu

Cappio: una fine e un inizio di Sauro Nieddu

Genere: Realismo/Biografico

Da quanto tempo non usciva una risata dalla mia bocca? Non avrei saputo dirlo con certezza, ricordavo una risata isterica, priva di allegria, circa tre anni prima. Contava? Non lo saprei dire.
Quello che posso dire con certezza, è che la mia vita, negli ultimi dieci anni, era fatta solo di lavoro, e di stordimento dopo il lavoro. Quando ancora avevo una parvenza di vita sociale, ogni tanto qualcuno mi chiedeva perché uscissi sempre con quello zaino sulle spalle. Domanda a cui non rispondevo mai a voce. Semmai aprivo lo zaino, ne estraevo il mio bottiglione di vino e ne mandavo giù mezzo litro in un’estenuante, interminabile sorsata. Non c’era bisogno che mi spiegassi a parole.
Ma parlo di molto tempo prima dell’evento che vi sto raccontando. Allora la parvenza di vita sociale era già scomparsa, mi era restato solo l’alcol, tutto l’alcol che mi riusciva di mandar giù prima di crollare come una pietra. L’alcol era il mio stordimento preferito, due litri di vino li pagavo meno di quattromila lire, ma non disdegnavo nulla che mi capitasse a tiro, fosse hashish, barbiturici, monossido di carbonio, pastiglie… niente era escluso. L’unica cosa che andava estromessa a ogni costo era la mia coscienza, il dolore insopportabile che mi rodeva. L’unico modo per eluderlo era spegnere del tutto la mia mente.
E arrivò un momento in cui il dolore non fu più sostenibile, niente era più in grado di tacerlo completamente. O forse esisteva un modo…
Nello sgabuzzino fuori casa le grosse travi in legno erano perfette per lo scopo, il soffitto abbastanza alto da permettermi una caduta sufficientemente lunga. Salii sulla vecchia scala a libro e feci passare per tre volte la corda attorno alla trave, poi, una volta giù dalla scala, preparai il nodo scorsoio. Mi ci volle qualche tentativo prima di raggiungere il risultato voluto ma alla fine lo ottenni. Quando il cappio si fosse stretto fino alla misura del mio collo, i piedi avrebbero penzolato a una ventina di centimetri dal pavimento.
Stando rannicchiato in cima alla scala, e lasciandomi cadere, il mio baricentro avrebbe avuto circa due metri per accelerare prima del brusco stop terminale. Per quanto ne sapevo di impiccagioni, un volo di quella portata sarebbe stato più che sufficiente a rompere qualunque collo. Vigliacco da parte mia, ma avevo il terrore di morire soffocato. Sarebbe dovuta essere una morte istantanea.
I miei propositi suicidi, però non erano dettati da un impulso cieco. Non avevo intenzione di suicidarmi in quel momento. La morte per me è sempre stata una cosa seria, non volevo affrontarla come una fuga disperata. Volevo che fosse un atto consapevole e meditato. Volevo affrontarla con l’animo sereno, non in preda al dolore.
Tornai sulla scala, appesi il cappio a un chiodo sulla trave. Mi ripromisi di attendere un momento in cui avessi potuto affrontare la morte con la giusta prospettiva. E così passò il tempo, passò duramente, immerso in quel dolore soffocante, quell’impossibilità di affrontare la vita.
L’inevitabile conclusione di quella vicenda accadde un giorno di qualche mese dopo, un sabato per la precisione, che uscii a bere qualche birra al bar. Ero alla quarta, forse alla quinta bottiglia, quando improvvisamente mi trovai circondato da vecchie conoscenze. In modo del tutto inaspettato, quel giorno ricevetti manifestazioni d’affetto di cui quasi avevo dimenticato l’esistenza. Nonostante tutto potevo ancora accogliere qualche briciola d’amore, mi sentii vivo, per un momento.
Rientrai verso casa barcollante. Non posso dire che fossi felice, ma il dolore era scemato, era a un livello accettabile. Lo stato d’animo più vicino alla serenità che mi fosse capitato di provare da parecchi anni. Una volta a casa salii la vecchia scala a libro, mi portai più in alto che potevo, chiusi gli occhi e respirai a fondo. Esisteva solo l’aria che entrava e usciva dai miei polmoni. Niente più dolore, nessun problema riusciva più a toccarmi. Aprii per un attimo gli occhi a guardare verso il basso, poi li richiusi. Un altro respiro, e mi lasciai cadere.
Non avvertii il brusco contraccolpo nel momento in cui la corda si tendeva, non avvertii il suo stringersi attorno al collo. Neppure il senso di caduta. Il buio che già pervadeva la mia mente si fece solo più intenso, un buio caldo, accogliente, quasi un ricordo dell’utero materno. Non so quanto tempo durò quella sensazione. Ero in un mondo in cui il tempo mancava di qualunque significato. So che a un certo punto mi sentii fluttuare, i piedi si posarono dolcemente a terra. Aprii gli occhi lentamente e la luce della lampadina mi fece lacrimare. Li asciugai con la manica, e mi guardai attorno stranito. Cos’era successo? La corda cadde dall’alto, spezzata. Presi ancora un respiro profondo. La sensazione di vago benessere era andata. Il dolore era tornato a pulsare con forza dentro l’anima.
Con noncuranza ficcai le mani in tasca a cercare il pacchetto delle sigarette, me ne accesi una e tornai verso il bar, dovevo sopire quel dolore da capo, ancora.
Il giorno dopo, al risveglio, quei ricordi non avevano più importanza di del mal di testa che mi affliggeva, o del ricordo di una merda di cane pestata per strada la sera prima. Mi alzai e mi diressi d’urgenza verso il bagno. Fu solo una coincidenza che mi mise al corrente della portata di ciò che era accaduto. C’è in casa una porta di appena qualche millimetro più alta di me. Eppure quella mattina, nel passarci, la mia testa ne urtò la parte superiore. Strano, mi dissi.
Quando uscii dal bagno controllai meglio, mi misurai, non c’era ombra di dubbio, il mio metro e settantaquattro di altezza era diventato un metro, settantacinque centimetri e mezzo. Solo allora mi resi conto della violenza di quel contraccolpo che non avevo neppure avvertito. Tornai in bagno e mi scoprii il collo davanti allo specchio. Un’abrasione rossa fiammante segnava il collo lungo tutta la sua circonferenza, un livido violaceo, circondato da un alone giallognolo, si spandeva tutt’attorno ad essa.
Andai nello sgabuzzino, la corda era ancora là in terra. La raccolsi e sedetti a fissarla su uno scanno col fondo impagliato. Sfidando la nausea, accesi una sigaretta. Com’era possibile, mi chiedevo, non aver sentito nessun dolore al collo, nessun contraccolpo. Ma con più forza mi chiedevo. Com’è possibile che la corda si sia sfilacciata in quel modo sul bordo liscio e arrotondato della trave? Com’è possibile che lo strappo che mia aveva allungato in quel modo la colonna vertebrale, non mi avesse ucciso?
O forse ero morto… vidi la mia famiglia e gli amici piangere al mio funerale, mi vidi soffocare lentamente, diventare paonazzo mentre quel nodo scorsoio mi uccideva con una modalità imprevista, vidi…
Soffocai un conato di vomito, gettai via la sigaretta. La corda mi scivolò dalle mani mentre mi tenevo la testa e serravo gli occhi. La mia mente fu invasa da un brulicare confuso di probabilità, vie che si diramavano all’infinito, gatti vivi e morti allo stesso tempo, particelle di luce che cambiano la loro essenza secondo come le si guarda… e ancora, lentamente, da questo caos cognitivo emerse una visione lucida e terribile; tagliente come un bisturi, ma dolorosa sulla carne come una vecchia sega arrugginita.
Mi resi conto che la mia coscienza era allo stesso tempo l’oggetto e l’osservatore di questo tragico esperimento. Per quanto fosse remota la probabilità di sopravvivere, la mia consapevolezza, avrebbe per forza continuato a esistere all’interno di quella remota possibilità. Non sono morto semplicemente perché in tutte le varianti in cui avrei potuto esserlo, la mia coscienza non esisterebbe. La mia coscienza, per potere esistere, deve obbligatoriamente trovarsi nel campo probabilistico, per quanto limitato, in cui io sono sopravvissuto.
I muscoli delle braccia si tesero all’improvviso per sorreggere il peso della testa, che si era fatta come un macigno.
Dunque la morte non esiste, non la nostra almeno, esiste solo quella degli altri, a caricarci di ulteriore dolore. E non c’è speranza di fuga nell’oblio. La sofferenza è eterna.

7 Risposte a “Cappio: una fine e un inizio di Sauro Nieddu”

  1. Bello, molto introspettivo 🙂 Non si può votare, ma se si potesse lo farei!

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