Il sogno di Massimo Licari

Il sogno

Genere: Fantascienza

Superata la collina, un dolce declivio porta fino alla radura, in mezzo alla quale la casa si delinea chiaramente sullo sfondo della valle che, in questa stagione, è impreziosita da mille colori dei fiori.
Un pennacchio di fumo s’innalza dal comignolo e, serenamente, si spande per l’aria come una nuvola leggera.
Finalmente sono tornato a casa.
Come sempre, il primo ad accorgersi del mio ritorno è Bluff, uno splendido Golden Retriever che ci ha adottato qualche mese fa. Vagava apparentemente senza meta nella valle, ma non dava l’idea di aver smarrito la via. Piuttosto, sembrava un viandante che aveva deciso di far sosta nella nostra casa per condividere con noi quell’angolo di paradiso.
Senza chiedere nulla, aveva deciso di restare, con gran felicità di Dario e Simona, i miei due bambini.
Sia io che Marina, mia moglie, eravamo giunti alla stessa conclusione: non noi, ma lui ci aveva adottato, scegliendoci in base a chissà quale criterio.
E ora, come sempre, Bluff mi corre incontro, felice di rivedermi, anche se la mia assenza è stata breve: lo spazio di una sola notte.
Mi salta addosso e mi fa le feste, leccando dove può.
Poi corre felice verso casa, annunciando a tutti il mio arrivo con un abbaio foriero di buone notizie.
Sulla soglia di casa appare Marina sorridente, che si asciuga le mani con uno strofinaccio. A quest’ora ha già preparato la colazione per me e per i nostri bambini.
Affretto il passo nell’ultimo tratto che mi separa da lei, e come sempre accade, la abbraccio con tutto l’amore di cui sono capace, cercando le sue labbra con le mie.
“Finalmente sei tornato” mi dice non appena gliene lascio la possibilità.
“Si, sono tornato, come sempre, e come farò sempre, amore mio” le sussurro con dolcezza sfiorandole il lobo dell’orecchio.
“Vorrei che restassi sempre qui” mi dice con un velo di tristezza che improvviso appare nei suoi occhi color del mare.
“Lo vorrei anche io, davvero” le dico. “Ma non posso restare qui la notte. Vorrei con tutte le mie forze, ma sono costretto ad andare via”.
Il momento triste passa in un istante e lei, tenendomi per mano, mi guida verso la stanza dei bambini.
Eccoli i miei tesori, che ancora dormono, con quell’aria innocente e serena che solo un bambino può esprimere appieno.
Con dolcezza li accarezzo e li bacio, finché aprono gli occhi.
“Papà” mormorano mentre il sonno fatica ad abbandonarli. E mi regalano la cosa più preziosa che hanno: un bel sorriso.
Indugiamo per un po’ a coccolarci, e poi, insieme, ci sediamo intorno alla tavola imbandita.
Dario mi racconta di come ieri sera ha fatto fatica a prendere sonno, mentre Simona vuole raccontare il sogno che ha fatto.
Abbiamo un altro giorno tutto per noi.
Esploriamo insieme la prateria, preceduti da Bluff che scodinzola felice.
Contiamo le nuvole e cerchiamo di dare un nome alle forme che prendono rincorrendosi nel cielo. Osserviamo le api che si posano sui fiori e inseguiamo con lo sguardo le rondini che garriscono. E ancora giochi, abbracci, piccoli gesti di un amore che non ha mai fine.
Dio come corre il tempo!
Senza quasi rendermene conto, le luci cominciano ad affievolirsi, mentre il sole si prepara a lasciare la valle, tuffandosi dietro il monte lì, ad ovest.
È tempo di andare via.
Con la morte nel cuore abbraccio i miei amori, uno a uno.
“Domani torno” prometto mentre trattengo a stento le lacrime.
Ogni sera è sempre più difficile separarmi da loro, mia unica ragione di vita.
Ancora uno sguardo verso la mia casa. Sono tutti lì, ad osservarmi mentre lentamente risalgo la collina.
Con un gesto della mano lancio un ultimo saluto e poi comincio a scendere dall’altra parte.
La valle pian piano scompare dalla vista, coperta da questa stupida collina.
Davanti a me il buio non mi permette di scorgere nulla, ma avanzo, consapevole di non poter fare diversamente.
Finché il buio non mi circonda, avvolgendomi al punto da non riuscire ad udire più nulla.
Solo buio e silenzio.
Buio e silenzio.
Un suono elettronico rompe il bozzolo nel quale sono avvolto.
Meccanicamente allungo una mano e lo faccio tacere.
E poi, gesti meccanici, ripetuti infinite volte.
Esco da quel piccolo loculo che qualcuno si ostina a definire stanza e mi avvio verso l’uscita.
Un ascensore affollato si ferma e a fatica trovo il mio posto tra tutta quella gente silenziosa.
Centrotre piani in pochi secondi, e siamo al pian terreno.
Ci avviamo come automi verso l’uscita del blocco VI, diretti alla grande fabbrica, la Turbostar, ove trascorreremo le prossime dodici ore.
Il cielo è plumbeo, come ogni giorno del resto.
L’aria è cattiva, ma è l’unica che abbiamo.
Sarebbe bello poter avere una maschera con un depuratore, ma sono solo un operaio di terza classe e non posso permettermela.
Quello che guadagno basta appena per l’affitto del loculo e per mangiare. La tuta ce la passa la Turbostar, per fortuna, ed è l’unico vestito che possiedo.
Abbiamo perso tutto.
Ma una cosa non potranno mai togliermela.
Alla fine di questa giornata potrò riabbracciare i miei.
Sorrido mentre penso che regalerò ai miei bambini un pony.
E insegnerò loro a cavalcare.

9 Risposte a “Il sogno di Massimo Licari”

  1. Raccontato con semplicità ed efficacia. Voto questo testo.

  2. buon esercizio di scrittura. Molte emozioni traspaiono dalle righe.

  3. Voto questo testo perchè Massimo ha una scrittura molto fluida, e mi piace l’idea che più è brutta la realtà e più diventano belli i sogni!

  4. Voto questo testo
    rispecchia esattamente la mia situazione attuale, von la politica che ci ha messo in mutande… ma no, io almeno un vestito di ricambio lo tengo! molto bello comunque.

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