Il gorgo dei ricordi di Antonella Mattei

Il gorgo dei ricordi di Antonella Mattei

Genere: Psicologico/Introspettivo/Realismo/Drammatico

Strano, davvero strano. Misterioso, bizzarro e stravagante, forse inquietante.
Ma soprattutto strano.
Eppure ha sempre amato l’acqua, in ogni sua forma, stato e temperatura. La pioggia fresca che le inonda la faccia durante un temporale, gli impalpabili fiocchi di neve che osserva inebriata venir giù dal cielo a bocca aperta per poterli assaporare, quella tumultuosa e gelida dei fiumi, che scroscia, romba e ruggisce quando pratica e
insegna rafting; persino i tiepidi aghi sottili e penetranti della doccia le procurano un piacere quasi sensuale. Era davvero strano. Si trovava in quella casa da qualche settimana e non dormiva già più dalla seconda notte. Aveva pensato fosse dovuto al lutto recente:la perdita di sua madre, che ci aveva vissuto un’intera vita, ma percepiva
con una certezza non dovuta alla logica che non era quella la ragione. Roberta era andata via da casa prestissimo, a sedici anni si era trasferita in Trentino da un’amica, lasciando sua madre e il suo patrigno che, del resto, non avevano opposto alcuna resistenza. Il suo vero padre chissà in quale dimensione viveva. Tornava solo per qualche visita sporadica,mai ricambiata. Dall’alto delle sue montagne Roma era lontana anni luce, mai nostalgie o rimpianti; solo un dolore sordo nelle viscere nei momenti in cui era più indifesa. Durante il sonno più profondo, nella
fase R.E.M., quando i suoi freni inibitori erano fuori uso, Roberta si agitava inconsciamente nel letto, le pupille si muovevano veloci sotto le palpebre chiuse, mormorava parole confuse e incomprensibili, la sua fronte si aggrottava. Ma lei non ne era consapevole, al risveglio rimaneva solo la sensazione indelebile di un pugno che spingeva a fondo sulla bocca dello stomaco. Anche adesso, seduta su quella sedia col cuscino dai fiori scoloriti, il gocciolare tedioso e incessante del rubinetto in cucina sembrava portarla sul punto d’impazzire. Un martello pneumatico sarebbe meno assordante di quella goccia che tornava e ritornava incessante a trapanarle la scatola cranica; stava penetrando ogni circonvoluzione cerebrale, sfinendola.
Si strinse la testa tra le mani,socchiuse gli occhi di giada e si tirò indietro i lunghi capelli ramati, unici indizi sulla genetica paterna. Erano più di venti giorni che dimorava nella casa affacciata sulla tangenziale. Il rumore del traffico era incessante, eppure quella goccia, che niente sembrava fermare, la stava portando alla follia. Aveva provato di tutto: mettere un recipiente sotto quell’emorragia trasparente, sostituire il rubinetto, che nemmeno usava più per non peggiorare la situazione. Ma quella goccia la inseguiva in ogni stanza, ogni momento, le scavava il cranio come un perforatore per craniotomia. E le provocava un’insonnia letale. Si trascinava ciabattando lungo il corridoio per prendere in bagno l’acqua per la caffettiera; a quasi quarant’anni è bella ancora come quando aveva abbandonato la sua casa. Non ci sono sue fotografie in giro, solo quelle di sua madre con il patrigno, come se lei non fosse mai esistita.
La casa ormai è vuota, lui se n’è andato via da tempo e così tutte le beghe, legali e burocratiche, spettano a lei; si è presa una lunga aspettativa dal lavoro e dai suoi rombanti fiumi, deve chiudere definitivamente un capitolo. Oggi ha appuntamento con un medico; quest’assurda insonnia le rende troppo difficile portare a termine tutti i compiti, ha bisogno di dormire a tutti i costi: la goccia travalica persino i tappi di cera che s’infila con forza nelle orecchie. Il rumore del traffico si dilegua come evaporando, la televisione dei vicini diviene un sussurio rilassante, ma quel suono ripetuto e ossessivo svicola lungo il corridoio, s’infila nel suo letto e si tuffa dritto nelle sue orecchie. E lei sta annegando in quell’iniqua massa d’acqua. Si chiede come abbia fatto Ulisse a resistere al canto ammaliante delle Sirene, lei che sta perdendo il senno per una sola stilla; è pronta a giurare che una goccia può tranquillamente scavare la pietra,almeno a giudicare da come il suo intelletto si stia sbriciolando. Ad Agosto, a Roma, l’unico medico disponibile a riceverla subito è uno psichiatra. Era molto restia: soliti retaggi culturali sui medici dei matti, ma non ha trovato davvero nessun altro, ha cercato su tutti i siti web e sembra sia l’unico specialista che non sia andato in vacanza.  che l’avrebbero mandata al reparto psichiatrico, e pure di corsa.
Non conosce l’ospedale, non ricorda di averlo mai visto nella sua precedente vita romana; è vecchio, un po’ malandato, nascosto in un parco con i viali alberati che l’alto muro perimetrale non lascia presagire. Cammina nella mattinata assolata lungo sentieri deserti e sconosciuti, respira a fondo il profumo di resina che le fronde degli alberi rilasciano, ondeggiando dolcemente al vento che le smuove la gonna leggera. Cespugli di profumate rose selvatiche e api convivono in un ecosistema di assoluta perfezione, sulle antiche panchine di pietra, roventi per la canicola, le lucertole riposano vigili con gli occhi socchiusi, pronte a scattare al minimo fruscio. Impianti idrici e fontane
di pietra zampillano gorgoglianti e vivaci, producendo freschi aghi d’acqua, o fiotti più o meno leggeri. I passeri e i merli sguazzano indifferenti alla donna accaldata che non dorme da settimane perché una goccia d’acqua la sta facendo impazzire. È affascinata da questo luogo inaspettato, un angolo di bosco antico e incantato nel cuore della
metropoli, neanche i classici rumori della città, insonne come lei, penetrano gli alti muri di mattoni grigi percorsi da tralci odorosi di gelsomini rampicanti. La mancanza di sonno e la calura la invogliano a sdraiarsi su quell’erba verde brillante, intrisa d’iridescenti sfere d’acqua, e farsi lambire la pelle sudata dagli zampilli degli innaffiatoi, chiudere gli occhi e dimenticarsi di quella goccia. La goccia. Una fitta più forte allo stomaco. Si passa il dorso della mano sulla fronte e vi scopre una patina di sudore gelido; respira profondamente l’aria calda e satura di odori e s’infila in un padiglione. L’aria condizionata sembra risvegliarla da una sorta di trance. Non ci sono altri pazienti e il medico la sta aspettando; pressappoco suo coetaneo, capelli lunghi, occhialini da uomo di cultura e barbetta incolta tipica del “contestatore”. È molto professionale, una lunga anamnesi, domande sul tipo d’insonnia; la guarda spesso, dritto negli occhi. Roberta distoglie lo sguardo osservando il parco che si estende oltre la finestra dietro la scrivania:quello sguardo le incute soggezione, sembra scavarle dentro e lei vuole solo qualche sonnifero che le impedisca di sentire quella goccia. Il medico continua con le domande, sembra voler sapere di più, si sofferma a lungo dentro i suoi occhi, poi si toglie gli occhiali e sposta l’attenzione alla sua sinistra. Immediatamente anche Roberta guarda nella medesima direzione: un piccolo lavamani immacolato e un rubinetto. Il rubinetto gocciola lentissimamente.
«L’ha vista?» dire che il medico sia conciso è un eufemismo. «O forse dovrei dire: l’ha sentita?»
Roberta guarda le gocce che s’inabissano nel foro dello scarico e sbatte piano le palpebre: «Io… cioè… sì. Ora la vedo, ora…» si asciuga di nuovo la fronte, come poco prima nel parco. Il medico si avvicina al piccolo lavandino e apre al massimo il rubinetto: uno scroscio di acqua schizza voluttuoso sulla ceramica bianca. «La infastidisce?»
«No, no… ma non posso tollerare quella goccia, quella in casa di mia madre. Mi toglie il sonno, l’aria, mi fa star male. La prego, io voglio solo dormire!» Sembra quasi che lui non l’ascolti, chiude il rubinetto e la goccia ricomincia inesorabile la sua agonia. Roberta batte più veloce le palpebre, il respiro cambia ritmo, il gocciolio incessante le rimbomba nella testa. Il medico è davanti a lei ma sembra non vederlo, si scuote solo quando le tocca una spalla. «Le prescrivo un blando ipnotico, in modo che possa riposare; ma vorrei che lei tornasse, per approfondire le cause della sua insonnia. Mi diceva che deve rimanere a Roma almeno un altro mese, giusto?» La sensazione di turbamento è sconcertante: come può una goccia d’acqua provocarle tanto sconvolgimento? E perché solo in questa città, e in quella casa? Accetta, suo malgrado, una serie di appuntamenti bisettimanali, esce nella caligine ormai crepuscolare, compra i farmaci e finalmente si addormenta; si abbandona a un sonno artificiale, mentre il rubinetto continua inesorabile la sua sadica tortura e lei mormora sommesse e sconnesse parole.
Nessuno l’aveva avvisata che la fine di settembre è davvero incantevole a Roma; mentre cammina nel parco dell’ospedale ogni forma di vita sembra ancora più rigogliosa, come risvegliata dalla letargia estiva. I suoi problemi con l’insonnia si sono attenuati, ma solo grazie ai farmaci.Ora neanche ci entra più in cucina: la goccia sembra spiarla, seguirla, persino nel soggiorno, con la tv accesa, percepisce nettamente il suo sbeffeggiante tintinnio. Alcune volte si scopre a fissare le gocce come inebetita, perde il senso del tempo e della realtà. L’ha detto al suo medico, che non è apparso affatto stupito. Sembra leggerle nella mente, anticipa i suoi dubbi, studia ogni suo inarcarsi di sopracciglia, il fremito nervoso delle narici, le pupille che si dilatano all’udire la goccia. Sembra sapere cose che lei non riesce nemmeno a immaginare, con lui ha parlato, taciuto, mormorato e gli ha raccontato quanto odia quel suono.
Non il perché.
Era iniziato come un appuntamento uguale a tutti gli altri, poi il medico ha chiuso le finestre e i suoni vividi del parco sono scomparsi. Quando ha accostato le tende, il sole è diventato solo un alone nebuloso e la penombra ha invaso lo studio. Ha cominciato a parlarle con un tono profondo e monotono, ha portato la sua attenzione su quella goccia insistente: a un tratto c’era solo quella e il suo ritmo snervante. La voce era diventata come la bacchetta di un direttore d’orchestra che la guidava; i muscoli della mascella si erano ammorbiditi e la bocca appariva leggermente socchiusa, gli occhi rimanevano aperti ma quasi senza battito, le pupille ormai due punte di spillo
che inquadravano la goccia come un tiratore scelto con un bersaglio umano. Si chiama fascinazione ipnotica, ma Roberta ancora non lo sapeva. La goccia inizia sadica il suo viaggio, si stacca dal rubinetto e s’insinua avida e ingorda
nelle sue pupille, attraversa il nervo ottico perforando il cervello, il rumore rimbomba come un tuono nelle orecchie, scende nella gola e poi giù, fino all’anima. E il tempo comincia a scorrere all’indietro: la sua voce assume un tono infantile e cantilenante, rivede la sua coda di cavallo rossa e scarmigliata, le sue ballerine dorate, il vestitino rosa uguale a quello della bambola che sta ricevendo un trattamento di bellezza nel lavello della cucina. Sgrida, petulante, la bambola disubbidiente che non ha voglia di farsi bella; giunge alle sue spalle una voce famigliare: il suo patrigno. Le domanda se ha bisogno d’aiuto, lei chiede una sedia per arrivare meglio al rubinetto,lui accosta la sedia e ce la issa sopra e, pochi istanti dopo, inizia un nuovo gioco crudele e doloroso che durerà per anni. E intanto la bambola galleggia roteando, e affoga lentamente con la faccia di plastica sotto quella goccia d’acqua che lei si ostina a fissare per non guardare e sentire altro.
Scende dal pullman confusa con le altre persone, cerca di passare inosservata, ma il piccolo paese appena fuori Roma non le concede quest’opportunità. Sono quasi tutte donne quelle che si trovano alla fermata e la stanno guardando perché è completamente estranea a quel posto: non ci è mai venuta prima. Percepisce la curiosità della gente e prova a confondersi con i visitatori, acquistando da un ambulante un misero mazzetto di fiori. Varca il cancello che la separa dalla fine della sua ricerca. Il posto è ameno, silenzioso, prati ben curati, fiori profumati, alberi alti e possenti regalano giochi d’ombra e di luce, l’acqua gorgoglia altezzosa da polle e fontanelle sparse qua e là. Le ricorda un altro momento simile, il giardino dello studio medico; inizio e fine. Il cimitero del paese è molto curato, forse un po’ troppo presuntuoso, ha visto delle lapidi che sembrano miniature della Cappella Sistina, epitaffi strappacuore e frasi rubate dai Baci Perugina. Percorre i viali alberati soffermandosi spesso tra cappelle e lapidi, cercando d’ignorare i frequentatori abituali che la scrutano. Imbocca un viale laterale, qui i cipressi sono veramente enormi. Guarda in alto, l’appuntita chioma ondeggia lievemente nella brezza autunnale, cinguettii nascosti le fanno mordere il labbro inferiore: lui non se la merita tutta quella pace, dovrebbe bruciare per l’eternità nel fuoco. In quest’angolo nascosto del cimitero c’è pochissima gente, solo due donne che puliscono, lucidano e sgranano il rosario, poi, sottobraccio, se ne vanno. È sola, ancora pochi passi, gira il capo a destra e la vede.
La lapide è pretenziosa, marmo bianco con preziose venature grigie e sculture bronzee applicate. Un angelo disperato, anch’esso di marmo, sembra in procinto di spiccare il volo. L’epitaffio è talmente pomposo da rasentare il ridicolo. Sua madre ha amato quest’uomo o forse, con ipocrisia, ha nascosto i suoi peccati. Si abbassa per vedere meglio la foto e legge la data di nascita: vanità. La foto è di molto antecedente alla sua morte, ci teneva a farlo apparire al meglio, forse per celare il suo vero volto. Lo guarda con più attenzione, stenta a crederci ma lo rammenta a fatica, solo vaghi barlumi di quando le sue mani le facevano quello che lei faceva alla bambola. Peccato sia morto così, avrebbe preferito confrontarsi con un vivo, avrebbe preferito sapere prima cosa l’aveva spinta a fuggire da casa giovanissima, a non avere un rapporto di confidenza con sua madre. Ipocrisia, falsità, dolore. Un ultimo sguardo alle fontanelle gorgoglianti. Raccoglie l’acqua fresca che tanto ama nel palmo delle mani, socchiude gli occhi e si bagna il viso, reclinando indietro la testa, mentre con la lingua ferma le gocce: inizia a piovere, decine e decine di piccole molecole liquide le mondano la pelle e l’anima. Apre gli occhi gelidi; fissa la foto mentre grosse gocce limpide le colano dal mento e dai capelli, getta lontano i miseri fiori e se ne va.

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15 Risposte a “Il gorgo dei ricordi di Antonella Mattei”

  1. Antonella sei bravissima! Orgogliosa di conoscerti.
    Ti auguro tanto successo!

  2. Mai! Almeno fino a quando avrò la forza di pigiare i tasti del pc!

  3. Questa autrice è davvero una rivelazione. La seguo ormai con attenzione e non delude mai. Davvero un testo splendido. Voto per questo testo

    1. Sono davvero in imbarazzo! Non sono abituata ai complimenti.
      Grazie davvero!

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