I ricordi che contano di Sabrina Guaragno

I ricordi che contano di Sabrina Guaragno

Genere: Realismo/Psicologico/Sentimentale

Apro gli occhi, la vista è confusa. Tenerli aperti mi costa fatica, così li richiudo, dandola vinta al torpore.
Quando mi sveglio di nuovo, la prima cosa che inquadro è un volto di donna. Le guance piene, il nasino piccolo, le labbra sottili e gli occhi tondi tondi. Mi guardano incuriositi, potrei quasi dire contenti. Sono di un bel blu cielo, anche se il volto della donna non lo è propriamente. C’è qualcosa di bello nel suo sorriso, però.
Rimango a osservare i capelli color paglia secca lunghi fino alle spalle per un po’, mentre la donna mi parla. Ma non capisco, come posso fare a dirglielo?
Per qualche giorno tutto rimane così. Apro gli occhi, c’è qualcuno ad accogliere il mio sguardo. Qualche volta è di nuovo quella donna dal volto un po’ banale, qualche volta no.
Mi parlano, mi danno da mangiare. Mi chiedono come sto, come mi sento.
Sono in ospedale, ho avuto un incidente, sei mesi fa. Sei mesi di coma, sei mesi di niente.
Mi chiedono il mio nome, anche se loro lo sanno già. Ed è solo in quel momento che mi guardo dentro, e vedo che non c’è esattamente niente. I miei ricordi iniziano dal momento in cui ho messo a fuoco il volto della infermiera bionda. Il resto, è nulla.
Ho perso la memoria.
Passano i giorni, miglioro sempre di più. Ho incominciato a parlare, a mangiare da solo.
A quanto mi dicono, mi chiamo Marco Rossetti. Un nome talmente anonimo che non posso credere che sia davvero il mio. Non mi ricorda niente, il mio cervello non reagisce al suo suono anche se dovrei avere quel nome stampato dentro la mia scatola cranica, in qualche modo. Del resto, è il mio!
La mia famiglia? A quanto pare sono solo al mondo, o quasi. I miei genitori sono morti tanto tempo fa, alcuni miei zii si sono trasferiti a Londra, e non mi sono mai sposato, non ho nemmeno una fidanzata.
Tutto questo me lo hanno detto gli infermieri, che hanno trovato la mia carta di identità nell’auto, il giorno dell’incidente.
—E’ stato un brutto scontro, signor Rossetti. E’ un miracolo che sia vivo.— Mi ha detto Giovanni, un infermiere dai capelli rossi e le lentiggini sulle guance, molto simpatico. Mi ha restituito le poche cose che avevo con me il giorno dell’impatto.
Ho passato giorni a osservarle: un mazzo di chiavi, probabilmente quelle di casa, un telefonino ormai inservibile, un pacco di fazzolettini, un portafoglio con dei soldi e la mia carta di identità. Ho guardato a lungo la foto del ragazzo dai capelli e occhi scuri in quel piccolo rettangolo di carta, cercando in qualche modo di riconoscermi in esso.
Ma questo è un ragazzo giovane, sui venticinque anni, felice, sicuro di sé. Possibile che io sia stato quel ragazzo, fino a pochi mesi fa? E se lo sono stato, perché non me ne ricordo?
Giovanni, nel tentativo di aiutarmi, ha anche chiamato gli zii londinesi, il cui numero era probabilmente memorizzato sulla sim del cellulare distrutto. Ho parlato con loro, sono molto dispiaciuti e preoccupati per me, ma al momento sono troppo impegnati per mettersi su un aereo e venire a trovarmi.
Come biasimarli? Io non glielo avrei nemmeno mai chiesto.
Li ho rassicurati, fingendo di riconoscerli in qualche modo. Ma ho solo finto.
Le mie giornate hanno continuato a srotolarsi così, più o meno tutte uguali.
Al mattino colazione, magari in compagnia di Giovanni o della infermiera bionda, il cui nome mi è ancora ignoto. Visitina dal medico, un dottore alto e robusto dall’espressione autoritaria, il dottor Martinelli. Mi chiede sempre se sto iniziando a ricordare qualcosa, e mi dispiace doverlo deludere ogni volta. Si sta impegnando davvero tanto, con me.
Fisioterapia, per il mio corpo che cerca di ristabilirsi e di riprendere a muoversi come un tempo. Pranzo, qualcosa di insipido, ogni volta. Televisione, altri esami. Medicine. Cena. L’oblio della notte.
Ho iniziato a frequentare uno psicologo, e il dottor Martinelli è stato d’accordo con me. Magari parlare di ciò che è successo mi aiuterà a ricordare. Magari, almeno, mi aiuterà a sfogare questa depressione che mi porto dentro, questa tristezza.
Sono solo, e me ne accorgo ora, ora che non ho nemmeno i ricordi a farmi compagnia.
Mi chiedo, prima di questo, prima di perdere quei ricordi… questa solitudine non mi pesava?
Lo psicologo, Federico Grassi, un vecchio allampanato con grandi occhiali tondi alla Harry Potter, dopo un paio di chiacchierate, mi ha fatto un regalo. Ho strappato la carta con un pizzico di curiosità, un sentimento che mi sembrava di non provare da tanto tempo. Un quaderno nuovo.
Mi ha detto di tenerlo sempre con me, di prendere appunti sulle cose che mi sembra possano avere un nesso col mio passato, di scrivere cosa mi ricordo, anche se è poco o nulla.
Ho annuito, rassicurandolo.
Quando poi sono tornato nella mia camera di ospedale, finalmente fuori dal reparto rianimazione, l’ho poggiato sul mio comodino, accanto al piatto della frutta e alla bottiglietta d’acqua.
I miei compagni di stanza, un ragazzotto di sedici anni con una gamba ingessata e qualcos’altro di rotto e un uomo con problemi di appendicite, mi hanno coinvolto in uno di quei giochi di domande e risposte che, secondo le loro idee malsane sulla psicologia, avrebbe dovuto smuovere qualcosa nella mia testa. Ma nulla, e ogni volta che mi trovo ad osservare quel quaderno dalla copertina verde acqua, vuoto, anonimo, sento un groppo alla gola.
Poi arriva l’infermiera bionda, mi misura la febbre, così, per prassi. Mi da le mie medicine. Controlla la mia cartella e se ne va.
Una sera, ho voglia proprio di farmi del male. Prendo quel quaderno, vedo Giovanni, intento a medicare il sedicenne, guardarmi di sbieco. Faccio finta di nulla.
Da qualche tempo sto meglio, e credo che tra poco mi rimanderanno a casa. Sempre che riesca a ritrovarla.
E questo mi mette in ansia. Senza i miei ricordi, sono solo, perso.
Apro il quaderno, fisso il primo foglio bianco. Bianco, vuoto. Come me.
Come la mia memoria, spazzata via da un colpo alla testa. Tutto cancellato, la mia infanzia, il volto dei miei genitori. Ma come è possibile tutto questo? Perché, invece, ricordo come si utilizza il cucchiaio per mangiare la zuppa, o il programma che fa il sabato sera alla tv?
Gli occhi mi pizzicano, e chiudo il quaderno, il foglio bianco coperto dalla sua copertina colorata.
Butto via la penna, rimetto il quaderno al suo posto e mi metto a dormire.
Il mattino dopo, l’infermiera bionda mi sveglia con una carezza. Apro gli occhi, e mi rendo conto che mi sta toccando la fronte per sentire se ho la febbre. Rassicurata, mi sorride. —Buongiorno signor Rossetti, mi dispiace di averla svegliata— mi dice.
La vedo scrivere qualcosa sulla mia cartella. Poi esce dalla stanza silenziosamente.
Il cuore mi batte a mille, per un attimo mi sento confuso. Il mio sguardo corre al quaderno verde acqua, lo prendo, lo apro. Fisso il foglio bianco… Che all’improvviso non lo è più.
Adesso è pieno di flebili, anche se piacevoli ricordi. Ricordi delle belle persone che ho incontrato qui, tra le mura di questo ospedale. Ricordi di Giovanni, del dottor Martinelli, dello psicologo Federico, dei miei compagni di stanza, anche se vengono e vanno via all’ordine del giorno. Ma soprattutto, pieno dei sorrisi dell’infermiera bionda che ogni volta ha per me un gesto gentile, una carezza, una parola dolce.
Mi rendo conto di averla memorizzata nella mia testa come l’incarnazione della persona buona, della gentilezza, dell’eleganza. E anche della bellezza, perché no. La sua bellezza non è nei lineamenti un po’ anonimi, né nel corpo magro e fasciato da vesti troppo larghe, ma comode, di un verde-ospedale un po’ deprimente. La sua bellezza è in quello sguardo di sincera attenzione e bontà che mi rivolge ogni mattina al mio risveglio. Come potrei mai farne a meno?
Metto al suo posto il quaderno. E’ ancora vuoto, ma adesso la mia mente non lo è più come credevo. Il mio foglio bianco, si è riempito di parole.
Mi alzo, un po’ malfermo.
Vedo Giovanni, intento a fare un prelievo a un nuovo paziente, guardarmi con un sorriso.
—Si chiama Alessandra— mi dice, ed io gli sorrido di rimando, perché il mio amico sembra avermi letto nel pensiero.
Esco in corridoio, la vedo camminare con il carrello delle medicine. La raggiungo, e mi faccio coraggio.
—Alessandra— la chiamo.
Si volta a guardami, mi sorride incuriosita. —Grazie di tutto— le dico.
Lei sembra un po’ confusa, sta per dire qualcosa ma la interrompo. —Posso aiutarti in qualche modo?— le chiedo, indicando il carrello.
Lei scuote la testa. —Non preoccuparti, Marco.—
Mi batte forte il cuore. Mi ha chiamato per nome!
Lei sorride, sembra quasi aver capito cosa succede. —Torna a letto, quando avrò finito, verrò a farti compagnia per la colazione.—
Le sorrido, e faccio come dice.
Quando torno nella mia stanza, mi siedo sul mio letto, prendo il quaderno e la penna e incomincio a scrivere. Non credo che Federico si arrabbierà, se invece di scribacchiarlo di ricordi passati lo riempio con quelli presenti. Perché sono questi, quelli che contano.

16 Risposte a “I ricordi che contano di Sabrina Guaragno”

  1. Voto questo testo.
    L’amnesia di questo ragazzo e il suo graduale risveglio si inserisce perfettamente nel tema del racconto. Brava Sabrina, idea originale!

  2. Voto per questo testo. mi è piaciuta la scrittura scorrevole e il messaggio profondo e carico di speranza. anche il tema è centrato in modo tutt’altro che banale.

  3. voto questo testo
    per i molti risvolti che contiene. il passato che può essere lasciato dov’è e per i ricordi di domani, quelli che si costruscono, vivendo, oggi

  4. molto bello questo racconto. Spesso viviamo in altri spazi temporali che rifuggono dalla quotidianità, facendoci dimenticare di vivere il presente. Voto per questo testo

  5. Sì, meglio riempire col presente i nostri spazi bianchi: i tratti arrivano più marcati.

  6. proprio carino questo racconto fa riflettere sull’importanza del presente

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