Il tristo dio di Barbara Risoli

Il tristo dio di Barbara Risoli

Genere: Fantasy

Capitai per caso in quel luogo magnifico dai riflessi preziosi delle sabbie auree e dei fiumi d’argento, pietre preziose erano i sassi che calpestavo e miriadi di diamanti fungevano da stelle in quel cielo nascosto e abbagliante. Avanzai di qualche passo, consapevole di trovarmi laddove a nessun mortale era permesso penetrare, ma Hypnos il sonno che allevia la fatica mi aveva concesso di varcare una delle sue porte, quella veritiera di corno che mi avrebbe fatto conoscere lo sconosciuto. Ammirai allora le miniere di Ades il ricco, dio del sottosuolo ma anche dell’Oltretomba. Solo sovrano di quel luogo mesto egli era, io lo sapevo, altri suoi inviati erano più funesti di lui, fratello di Zeus tonante e di Poseidone del ponto signore. Dunque il mio era un sogno, seppur reale, ma un sogno dal quale avrei attinto conoscenza, stupore e forse timore. Sollevando polvere d’oro camminai lentamente suggendo beltà in ogni angolo, respirando la ricchezza assoluta che qualsiasi uomo avrebbe anelato, se solo ne avesse conosciuto l’esistenza.
Udii un fragor di zoccoli spezzare rubini e smeraldi come fossero ciottoli senza valore; poi un chiacchiericcio allegro mi interessò e lo scorsi. Vidi colui che tutti temono ancora nel mio tempo, mutando nome e volto. Lo vidi sontuoso come il dio che era, Ades l’invisibile che in quel momento si mostrava sul carro d’argento trainato dai destrieri infernali segnati dal marchio di Dite e tra i quali spiccava per eccellenza e forza il cavallo suo diletto, Alastore occhi di fiamma, senza respiro, statua movente di un regno silente. Accanto al padrone indissoluto di quel luogo vi era chi davvero noi tutti temiamo, chi che neppure i secoli e la memoria hanno cancellato, bello quanto inquietante con cuore di ferro in petto e senza anima che possa indurre alla pietà. Thanatos, seduto sul carro percorreva le vie della meraviglia in attesa di nuovo mesto incarico e sorrideva senza sentimento, discorreva senza interesse, scrutava ogni angolo senza provare alcun senso di cupidigia o repulsione. Ebbi un tremito scorgendo la morte e pregai il mio dio perché mi fosse salvo il respiro. La mia preghiera echeggiò in quel luogo pagano.
E lui mi vide, fermando con un gesto del polso il cavalcare dei destrieri infernali che nitrirono assordanti. Indietreggiai quando mi vide e caddi in ginocchio nel momento in cui lo ebbi davanti e gli fui al cospetto. Silenzioso mi chiese spiegazioni che fossero accettabili.
«Una figlia dell’Unico nel mio regno inviolabile?» asserì minaccioso. Accanto a lui Thanatos guardò oltre la mia spalla mettendomi a disagio.
«Sempre insolente il mio fratello che mi somiglia» disse con la voce distante di chi non appartiene a questo mondo e neppure al mondo che lo aveva generato. Thanatos si dimostrò irritato, ma non reagì più di tanto, la sua freddezza era assoluta.
«Hypnos dunque si è divertito a far invadere il mio regno da chi tanti secoli fa mi ha assassinato?» continuava a fare domande il dio dell’Oltretomba pretendendo da me risposte che non avevo.
«In onirica visione sono al tuo cospetto, Agesilao tenebroso» mi limitai a salutarlo evitando accuratamente di pronunciare il suo nome, considerato bestemmia nel tempo che gli apparteneva. Questo sembrò ammansirlo e lieve, nonostante l’imponente stazza, discese dal carro divino, lasciando Thanatos da solo. Si apprestò a me e mi indusse a rimettermi in piedi dopo che mi ero affrettata a regalargli il mio estremo rispetto appoggiandomi su un ginocchio.
«Una visita inattesa eppure curiosa, mortale figlia dell’Unico che mi ha annientato. Eppure conosci il rispetto e mi concedi ciò che nessun uomo adesso mi concederebbe» asserì mesto, una cupa luce di rimpianto screziava dei lineamenti rigidi eppure perfetti, figli della bellezza che gli ellenici sapevano costruire per i loro dei.
«Tristezza colgo nel tono della tua voce profonda, Agesilao il ricco» gli feci notare sentendolo assurdamente amico. Egli sorrise senza entusiasmo e si sedette pesantemente su un masso che doveva essere d’argento. Pensò o forse rammentò, poi sospirò sotto lo sguardo ferreo di Thanatos.
«Quanto tempo è passato dall’ultimo mortale che ha chinato il capo al mio cospetto, dal giorno in cui l’ultimo degli uomini mi ha pregato e temuto, da quando il dio forte ha sancito la mia fine dichiarandosi unico e piegando i popoli. Quando tempo è passato dal giorno in cui il dio del perdono ha sacrificato la sua vita per salvare l’umanità da me che adesso sono un dio solo, senza popolo e senza futuro, senza presente. Appaio come una statua di cristallo e un giorno, quando neppure saper della mia esistenza varrà qualcosa mi infrangerò perdendomi nel mondo come polvere, illuminando per l’ultima volta il cielo e morendo definitivamente» parlò in un fiato, si lamentò in cerca di una salvezza ormai perduta. Il dio unico governava gli uomini adesso ed era forte, Ades lo sapeva e con lui tutti coloro che avevano abitato il soprannaturale per tanti secoli. Un dio decaduto incontrai, in dio che nel paradosso di un incontro che forse avrei dimenticato mi stava parlando di Dio, del mio dio. Mi stava dicendo che esisteva, mi stava illuminando di una fede che non avevo mai avuto. Mi chiamava assassina perché ero figlia di chi lo aveva ucciso smettendo di credere in lui. Era adirato e rassegnato, mesto eppure gioviale nell’accogliermi, contrario a ciò che tutti noi studiamo su libri noiosi triti e ritriti. Ebbi l’impulso di apprestarmi a lui che non mi fermò.
«Io che ti son carnefice non posso darti l’aiuto che tu invece mi regali, Agesilao tenebroso, dandomi imprevista conferma dell’esistenza invisibile del mio Dio distante. Non mi è permesso poterti ringraziare come sarebbe giusto, mi limito ad apprendere ciò che i miei simili si chiedono da sempre, la certezza del divino sopra il mio cuore» gli dissi provando un inspiegabile sconforto. L’impotenza che sentivo di avere e la pietà che la tristezza del dio mi infondeva, abbattè la mia baldanza figlia del tempo in cui sono nata e chinai il capo lasciando che lui lo sfiorasse con la mano ossuta.
Aprii gli occhi. Scrutai tutto intorno e non vidi più la luce della ricchezza, solo la penombra della mia stanza. Il petto in fiamme di una nuova sensazione. Sentivo la presenza suprema di qualcuno, grande, potente, divino, giusto. Percepii la vita ed era stato Ades a indurmi a tanto; colsi il respiro di Dio attorno a me ed era stato Ades a rendermi attenta. Lo ricordai, lo avrei sempre ricordato e forse così, ma non lo avrei mai saputo, lo salvai da ciò che più temeva: l’oblio.

16 Risposte a “Il tristo dio di Barbara Risoli”

  1. Voto questo testo. Splendida scrittura, pieno di evocazioni e di rimpianto.

  2. Ha un suo messaggio: un sogno che diventa realtà.

    lo voto

  3. Bello, suggestivo, molto particolare. Non è un genere che frequento molto, ma la scrittura è efficacissima.
    Voto per questo testo.

  4. Questa e’ la Barbara che ho sempre conosciuto…fedele ai suoi miti ed eroi sognatrice di mondi lontani e preziosi…per gli amanti del genere sono chicche imperdibili!!!! Brava Rix!!!

  5. mi ricordo di un libro che ho letto e che si intitolava “l’errore di Cronos”.
    🙂
    Devo andarlo a riprendere
    Per non dimenticarlo, per non permetterne l’oblio!
    Paolo

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