I passi – tratto da L’Erede di Irma Panova Maino

Il porticato era ricoperto di ombre e la poca luce che giungeva dai lampioni posti sulla strada principale, non era sufficiente per dissipare le zone completamente immerse nel buio. Camminavo a passo spedito, impedendo all’apprensione di creare immagini terrificanti nella mente, continuando a ripetere che nulla si stava muovendo alle mie spalle e nulla si nascondeva dietro ad ogni colonna. Tuttavia, quel breve tragitto che mi separava dal portone di casa, mi parve improvvisamente più lungo di quelle decine di metri effettivi.
Quanto ancora?
Trenta, quaranta metri?
Forse qualcosina in più. Troppi in ogni caso. Un fruscio improvviso bloccò il mio passo a metà, costringendomi in una posa innaturale, dovuta più che altro per l’urgenza di voler cogliere quel suono prima che si disperdesse nel nulla.
Mi voltai di scatto. C’era qualcosa in fondo al porticato?
Qualcosa così confuso nelle ombre da non essere visibile?
Oppure era la mia immaginazione a farmi vedere e sentire cose che in realtà non esistevano affatto?
Rimasi tesa e immobile per un tempo che parve infinito, solo gli occhi schizzavano da una parte all’altra, timorosi di dare conferma a quanto solo l’immaginazione pareva alimentare. Era la forma di una mano, quella che sembrava spuntare vicina alla serranda del negozio in fondo?
Oppure era la sagoma di un uomo, visto di profilo, quella che si delineava vicino alla rientranza del negozio di tappeti?
Inspirai a fondo, sentendo brividi freddi solcarmi le vertebre, precipitando il coraggio in fondo alle scarpe. Quante volte avevo già fatto quel percorso, quel tratto di strada che intercorreva fra la mia abitazione e la zona centrale del paese, in cui erano situati la maggior parte dei locali e delle attrazioni turistiche?
Quante volte ero rientrata poco prima dell’alba, se non addirittura dopo?
E quante volte avevo avuto l’impressione di essere seguita?
Mai. Mai fino a quel momento. Inspirai ancora, provando la sensazione che l’aria fosse diventata come piombo, che bruciasse nei polmoni, soffocandomi il respiro.
Nulla. Non c’era assolutamente nulla. Niente che potesse impensierirmi o dare conferma alle sensazioni. Tuttavia la sgradevole impressione di non essere da sola continuava a persistere. Mille pensieri si affollarono nella mente agitata. Mille supposizioni, una più terrificante dell’altra. E altrettante soluzioni si affacciarono nella confusione, accavallandosi disordinatamente, mescolando argomenti difficilmente compatibili fra di loro.
Mai dare le spalle al pericolo…
Mai abbassare lo sguardo…
Mai guardare il nemico degli occhi…
Mai sfidare con lo sguardo uno psicopatico…
Mai dimostrare il panico…
Ma da cosa dovevo guardarmi realmente?
Alla fine cedetti. Per quanto assurdo potesse sembrare, mi voltai su me stessa e mi misi a correre. Il portone mi arrivava addosso a velocità spaventosa, mentre cercavo di raggiungere la sicurezza. Il tunnel del porticato mi si strinse attorno, aumentando il senso di panico e di soffocamento, allungandosi ad ogni metro percorso, come se non dovesse avere mai fine. La mano tremava quando raggiunsi finalmente le porte in vetro e i primi tentativi d’infilare la chiave nella serratura si persero nel vuoto.
Calma!
Finalmente la stramaledetta chiave trovò l’alveo in metallo e scivolò con relativa facilità nel suo alloggiamento. E allora lo sentii. Avvertii quel fiato sul collo che preannunciava la mia fine. Non avevo dubbi in proposito. La vittima non ne ha mai quando arriva il momento. La preda sa sempre quando il predatore pone la parola fine alla caccia.
Rimasi nuovamente immobile, totalmente conscia della presenza alle mie spalle e l’orrore per quello che vi avrei trovato, se mi fossi girata, m’impedì di voltarmi per guardare in faccia la morte. Qualcosa di umido e vibrante mi accarezzò la pelle del collo, scostandomi con uno sbuffo di fiato i capelli.
Un naso…
Umido e caldo.
Inequivocabilmente ero annusata da qualcosa di così grosso che aveva dovuto ripiegarsi su se stesso per arrivare alla pelle delicata della nuca. Qualcosa di grosso, peloso e odorante di resina e foglie bagnate. Trattenni il respiro, appoggiai la fronte al vetro, evitando categoricamente d’individuare l’ombra alle mie spalle, la stessa che vedevo riflessa sulla superficie fredda.
Un grugnito attirò la mia attenzione. Un suono basso, gutturale, vibrante in una gola che non aveva nulla di umano e comprensibile. Un suono così alieno che mi costrinse, mio malgrado, a sollevare lo sguardo, incontrando l’immagine nel vetro. Per quanto distorta potesse essere, era l’immagine di un animale. E per quanto l’ingenuità fosse l’ultima delle mie doti naturali, ciò che vidi mi lasciò pochi dubbi sulla natura del mio aggressore. Mi annusò ancora ed oltre al fiato, a quel punto registrai anche il fruscio dei suoi peli sulla pelle. Il lieve solletico prodotto da un pelo folto ed ispido. Oltre alla sensazione strabiliante delle sue zanne…
Quella era la morte.
Assurda.
Impossibile.
Inconcepibile.
Non vi era alcun termine per poter descrivere le mie sensazioni di quel momento.
Quante volte avevo fantasticato? Quante volte, scherzando, mi ero chiesta se poteva esistere una creatura simile? La risposta era là, a pochi centimetri dal mio collo, con le zanne snudate, pronte a colpire.
E fu allora che mi voltai.
Se era la morte, volevo vederla. Se quella era la mia fine, non me ne sarei andata con gli occhi chiusi, pregando nel miracolo o sperando in un possibile salvataggio in extremis.
Volevo vedere. E volevo farlo con tutta la consapevolezza che l’attuale situazione mi poteva permettere.
Mi voltai e fissai la creatura negli occhi, perdendomi nel mare profondo ed oscuro delle sue pupille dilatate.
“Mio Dio… sei reale…” la frase mi scappò del tutto involontariamente, dimostrando tutta la meraviglia che provavo nonostante l’orrore iniziale. Sorrisi.
Stupidamente, inconsciamente e, tenendo conto delle circostanze, in modo del tutto inopportuno. Cosa c’era da sorridere davanti a quel muso appuntito?
Un muso in cui il biancore delle zanne offuscava qualsiasi altra cosa?
E non c’era possibilità di errore.
La pelle sulla sommità era arricciata in pieghe compatte, rughe profonde solcavano l’epidermide pelosa lasciando scoperta la bocca della fiera, socchiusa in un ghigno famelico. Tuttavia il suono della mia voce produsse un effetto rilassante su quel muso e lentamente la pelle tornò a distendersi, coprendo le gengive e parte dei lunghi denti.
Forse, dopo tutto, non mi avrebbe sbranata subito.
L’animale si spostò nervosamente da una zampa all’altra e raddrizzò tutto l’imponente corpo di qualche centimetro, come se non fosse più così sicuro delle proprie intenzioni.
Emise un sordo brontolio impaziente e tutto il pelo ondeggiò al ritmo dei suoi muscoli tesi.
“Vorrei toccarti…” Oddio!
Che razza di idiozia avevo appena detto?
La frase era sgorgata senza alcuna speranza di poterla fermare. Tuttavia era esattamente questa la natura dei miei pensieri. Volevo toccarlo. Infilare le dita in quel pelo folto e saggiarne la consistenza sotto i polpastrelli. Volevo sentire la sua carne guizzare sotto l’epidermide e bearmi della forza che poteva essere sprigionata dal suo fisico notevole.
Amavo gli animali.
Li avevo sempre amati e se non fosse stato per il fatto che non avrei sopportato l’idea di vederli soffrire, avrei studiato veterinaria. Tuttavia ero più che conscia del fatto che su cento esemplari che avrei potuto guarire e salvare, almeno un buon dieci per cento mi sarebbe morto fra le mani. E quelle morti non avrei potuto sopportarle, mi avrebbero straziato l’anima. Ciò che avevo davanti e che ancora mi guardava con aria famelica, era il Re di tutta la fauna presente in natura.
Era il sovrano indiscusso di un mondo animale che presentava diversi aspetti poco conosciuti al mondo umano. Aspetti che avevo appena scoperto quella notte, segreti che mi sarei portata nella tomba.
Paura, orrore, meraviglia, c’era di tutto nel mio sguardo confuso ed un desiderio inespresso che doveva essere in qualche modo soddisfatto.
Almeno una volta…
Dovevo poterlo toccare…
Allungai involontariamente una mano e nel momento stesso in cui feci il gesto, la bestia scattò verso il mio arto proteso. I denti sfiorarono la pelle e la mascella si tese, pronta a far scattare la micidiale presa sul mio polso, pronta a perforare pelle e carne, a spezzare le ossa, triturandole, riducendo il braccio in qualcosa di sanguinolento e inservibile.
Rimasi a osservare affascinata, incapace di distogliere lo sguardo dallo sfacelo che sarebbe avvenuto nel giro di pochi secondi. Tentando di preparami al dolore ed allo strazio. Tuttavia non accadde nulla di quanto mi ero aspettata di provare.
Nulla.
Ancora una volta nulla. Non chiuse la bocca. Rimase anche lui sospeso, a metà fra quello che doveva essere l’istinto e altro che non avrei saputo spiegare.
Allontanò di scatto il muso dal mio braccio e chinò repentinamente la grossa testa, arrivando ad annusarmi il corpo. Rabbrividii sotto quell’invasione sensoriale improvvisa.
Il tartufo, grande quanto un mio pugno, mi percorse da capo a piedi, sbuffando contro il tessuto dell’abito estivo, sollevandolo quasi quando raggiunse le gambe.
Rabbrividii nuovamente e non avrei potuto dire che fosse solo per paura. Vi era qualcosa di primordiale ed eccitante in quel suo cogliere la mia traccia olfattiva. Qualcosa che richiamava altri istinti. Sollevò il muso, arrivando a sfiorami la pelle del viso, lasciandomi lievi solchi umidi sulla mandibola e sulla guancia.
E il desiderio di toccarlo si fece quasi feroce.
Tuttavia rimase solo un desiderio. Si allontanò da me con la stessa velocità con cui si era avvicinato e in pochi secondi lo vidi scomparire fra le ombre. Rintanandosi in quello spazio in cui anche gli incubi perdevano la loro consistenza terrificante.
Eppure…
Per pochi secondi, per un istante troppo breve perché io potessi capire alcunché, tornò a voltarsi, lanciandomi un’occhiata che non avrei saputo spiegare. Qualcosa in quegli occhi scuri, come la notte che ancora mi avvolgeva, nonostante l’alba imminente, mi diede la certezza che vi fosse una mente più che consapevole dietro a quell’apparenza bestiale. Un altro brivido mi scosse le membra e fu con estrema fatica che riuscii a far girare le chiavi nella serratura.
Solo quando mi sentii al sicuro in casa, mi concessi il lusso di andare sul balcone per scrutare fra le ombre sottostanti, tentando d’individuare una grande massa pelosa che poteva aggirarsi ancora in zona. Tuttavia, nonostante tentassi di sforzarmi, nonostante cercassi di dare un senso a ciò che avevo appena passato, non riuscivo a capire in che modo potessi essere sopravvissuta ad un licantropo.