Il Messaggero del Re di Luigi Bonzanini

Stavolta, sembrava proprio che tutto dovesse andare a catafascio. La cosa peggiore non sarebbe stata la galera per debiti, ma la vergogna che ne sarebbe inevitabilmente seguita. Ci mancava solo la prigione per coronare la sua reputazione già tanto compromessa. Tutto inutile: le fughe da una città all’altra, le lettere disperate ad amici e parenti che erano rimaste sistematicamente senza risposta, la ricerca spasmodica d’un lavoro qualunque per accontentare, almeno in apparenza,la moglie e i creditori. Tutto inutile. Adesso era bloccato in quella stanza d’albergo, senza nemmeno i soldi bastanti a pagare il conto, e i creditori stavano per rintracciarlo nonostante la fuga precipitosa da Zurigo. Guardò di sfuggita un calendario appeso alla parete: era la sera del 2 maggio 1864. Sarebbe passata ai posteri come la sera in cui il grande musicista misconosciuto era finalmente crollato sotto il peso del suo destino infame. L’uomo s’accasciò sul letto accanto alla borsa da viaggio dove custodiva le sue uniche, vere proprietà: un fascio di spartiti incompiuti e destinati chiaramente a non essere mai eseguiti. Certo non era granché neanche fisicamente: sulla cinquantina, piuttosto basso e con un’evidente tendenza alla pinguedine, la sua testa era decisamente troppo grossa per quel corpo così infelice. Aveva capelli biondi con lunghe basette che tendevano ad unirsi in un collare sul mento sporgente. L’unica caratteristica notevole del suo aspetto erano gli occhi: azzurri e gelidi nella più autentica tradizione sassone. Comunque, adesso erano pieni di terrore disperato. Si era ficcato proprio in una situazione senza uscite, e tutto per cosa? Per una colossale illusione da demente. Aprì la borsa e ne trasse le partiture manoscritte, tutte redatte in bella calligrafia, senza l’ombra d’una sbavatura o d’una correzione. Sfogliò per un po’ quelle pagine coperte della sua grafia minuziosa, con una specie di rimpianto indicibile. Probabilmente, in futuro, tutta quella sua fatica da certosino operoso sarebbe andata perduta. Tutto il lavoro di una vita perso a sognare su quelle pagine che non valevano un soldo: Lohengrin, Walkiria, Siegfried, Tristano.
Tutte ineseguite; sogni mastodontici destinati a restare sulla carta alla faccia di chi vi aveva speso sopra tante notti insonni, in questo caso solo lui, il più stupido fra gli illusi. Lui: Richard Wagner, emerito compositore sconosciuto, ex maestro di cappella alla corte di Lipsia, licenziato in tronco per aver partecipato alla sollevazione rivoluzionaria del ’48. Gli venne da piangere pensando a come sua moglie Minna godeva nel rinfacciargli quel primo tracollo della sua inesistente carriera, non tanto perché gli rimordesse la coscienza a causa di quel licenziamento che, in realtà, era stato una sorta di liberazione, ma piuttosto perché doveva ammettere che Minna, come sempre, aveva ragione. Il mondo era un posto sudicio governato da usurai privi di scrupoli: senza denari, niente rispettabilità, niente gloria; Solo la vergognosa necessità di mendicare soldi ovunque e con qualsiasi mezzo. Anche in ginocchio, com’era accaduto a Parigi con Mayerbeer, quel giudeo infame che gli aveva allungato effettivamente un’elemosina per poi mandargli all’aria il Tannhauser. Ancora se li sentiva rintronare nella testa i fischi dei parigini: il più clamoroso fiasco in tutta la storia dell’opera lirica. Merito esclusivo della livida invidia di Mayerbeer per la sua opera che rischiava di metterlo in ombra davanti al pubblico francese. Era dovuto scappare in gran fretta anche da Parigi; poi, tornato in Germania, aveva giurato odio eterno a quell’ebreo borioso e a tutta la sua razza di usurai. Si era sfogato con un volumetto velenoso: “Il Giudaismo in Musica”, ma neanche quello aveva fruttato un quattrino. Sembrava proprio che della musica e delle opinioni personali di Wagner su di essa, all’umanità intera non gliene potesse fregare di meno. Mayerbeer, al contrario, quel laido e danaroso cialtrone, quello sì che era un musicista arrivato, corteggiato, ammirato. E lui, Wagner, aveva dovuto supplicare per avere da quel porco ebreo i denari appena bastanti a passare un inverno, e a quali condizioni poi: doversi adattare a trascrivere per cornetta a pistoni la musica di quell’altro cialtrone, Donizetti! Quel sifilitico scribacchino che sfornava un’opera in quindici giorni, quando a lui erano occorsi dodici anni abbondanti per finire il Tristano. Senza neanche rendersene conto, Wagner prese a sbattere la fronte contro la parete, masticando bestemmie e insulti in dialetto sassone. Il dolore lo fece rientrare in sé; per quando fosse resistente la sua grossa cervice satura di teutonico orgoglio frustrato, il muro era comunque più duro. Tornò a sdraiarsi ma, anche così, il panico lo costringeva quasi a boccheggiare. Esasperato, frugò freneticamente nella borsa da viaggio e ne trasse un flacone scuro con un’etichetta scritta a mano: Laudano.
Il medico l’aveva prescritto a sua moglie per alleviare le sue continue emicranie. Scappando da casa per l’ennesima volta, due giorni prima, Richard l’aveva infilato nella borsa con la vaga intenzione di usarlo come ultima difesa delle sue illusioni contro la bieca malignità del mondo. Adesso si trovava sull’orlo dell’abisso, costretto infine a fissare il nulla che lo attendeva in fondo alla bottiglia. Sentì un brivido corrergli lungo la schiena e la volontà annichilirsi dinanzi alla soglia che aveva fantasticato di varcare con cinica noncuranza. Se fosse coraggio disperato o suprema viltà, quel suo avvinghiarsi testardamente alla sua vita disastrata, questo non lo sapeva. Seppe soltanto che non sarebbe riuscito comunque a trangugiare quel liquido nerastro, neanche per far dispetto a Mayerbeer che certo non avrebbe pianto per lui, né per lasciare la combriccola dei creditori a fissare ammutoliti il suo corpo esanime calcolando mentalmente gli interessi irrimediabilmente perduti.
No, no, no!… Meglio la galera, meglio il sarcasmo di Minna, meglio persino i fischi e le grasse risate dei parigini. La vita è una ferita sanguinante nell’anima dell’artista, ma lui preferiva essere vivo e ferito nell’orgoglio, magari anche messo alla berlina, piuttosto che una salma anonima nell’obitorio di Stoccarda. Di quella porcheria ne avrebbe bevuto soltanto un cucchiaino, giusto per darsi una calmata e riuscire ad addormentarsi. Poi, domani, all’alba, sarebbe uscito di soppiatto dall’albergo e sarebbe sparito in qualche città remota, magari in Italia dove il clima è sempre mite, lontano dalle nebbie bavaresi e dal sarcasmo di Minna, lontano dagli usurai ebrei, lontano dalla carità pelosa di Mayerbeer. Alla malora tutto e tutti, lui aveva la tetralogia da portare a compimento! Non poteva arrogarsi il diritto di privare il mondo del suo genio.
Fu così che il misconosciuto maestro di cappella ingollò un sorso appena del farmaco letale e, senza neanche togliersi la palandrana, scivolò lentamente in un sonno torbido e inquieto. Si ritrovò in un posto strano che pareva proprio un palcoscenico deserto. il golfo mistico era vuoto; niente musica né pubblico, soltanto delle facce arcigne che lo fissavano da dietro le quinte. Ebbe un guizzo di spavento pensando: ancora creditori!… Ma quelle sagome indistinte restavano confinate nella penombra, senza osare accostarglisi. Poi, di lontano, come da un’altra dimensione, gli parve di sentire il suono d’un corno che scandiva il tema di Siegfried e, udendolo, la sua anima fu invasa da un sollievo indicibile come quando, camminando per una via senza luce, si scorge d’un tratto in lontananza un vecchio amico che ci viene incontro sorridendo. Un po’ rinfrancato, Wagner si guarda attorno e s’accorge che su quel palcoscenico male illuminato non è più solo. Qualcuno sta avanzando verso di lui a grandi passi, e lo chiama per nome con un tono di deferente rispetto a cui non è abituato. Quel qualcuno è un giovane bruno, quasi un ragazzo, con il volto d’un pallore esanime e gli occhi dilatati in modo innaturale come quelli d’un pazzo. Il giovane lo fissa e continua ad avvicinarsi; Wagner ne è dapprima intimorito, poi scrutandolo meglio, s’avvede che sorride d’un sorriso ingenuo, quasi infantile. Il giovane, vestito in alta uniforme, gli giunge dinanzi e gli stringe la mano con devozione commovente e, nel frattempo, sussurra a voce bassa:
“Maestro, maestro!… Non abbia più timore!…”

Tre colpi secchi e violenti alla porta: Wagner si sveglia di colpo e si ritrova nell’infima stanza d’uno sconosciuto albergo di Stoccarda. Alla malora anche i sogni! La squallida realtà bussa alla porta come il destino nella quinta di Beethoven, e il maestro viene colto ancora una volta dal panico. Stavolta è finita sul serio: i creditori l’ hanno trovato e sono arrivati, magari con qualche gendarme al seguito. E’ la fine! La fine!… Che vergogna, uscire in strada con le manette ai polsi!… Nel corridoio risuona stridula la voce dell’albergatore che grida senza alcun riguardo:
“Herr Wagner, ci sono visite per lei!…Herr Wagner, mi sente?!…”
Maledetto figlio d’un cane rognoso, gridalo ancora più forte casomai qualcuno non t’avesse sentito! Fallo sapere a tutti che Richard Wagner oggi sarà arrestato per insolvenza!
Wagner resta muto ed immobile così come s’è destato a fissare la porta oltre la quale lo aspetta un destino inesorabile. E il lazzarone insiste:
“Herr Wagner, si sente bene?… Deve aprire la porta o dovrò farla sfondare!…”
Wagner non si muove più, pietrificato dall’orrore. Dopo parecchi minuti, riesce soltanto ad articolare una specie di mugolio:
“Che volete?…”
“C’è qui un signore che vuole parlare con lei. È venuto apposta da Monaco ed ha molta fretta!”
Oddio, addirittura da Monaco l’hanno fatto venire!!!… Quello m’arresta e mi trascina in catene fino alla gendarmeria!!!… Oddio!!!…
D’un tratto una voce nuova, bassa e incisiva, si sovrappone a quella del locandiere:
“Herr Wagner, la prego, apra la porta, sono qui per espresso volere del re! Ho notizie importanti che la riguardano!…”
Notizie importanti?!.. Magari Mayerbeer è crepato d’un accidente e vogliono incolpare me della sua morte!… Dice che lo manda il re in persona!… Madonna santa, sta a vedere che stavolta mi danno la pena capitale!!!…
L’altro, intanto, ha perso la pazienza e si mette a strillare:
“Herr Wagner!!!… Se non apre immediatamente dovrò tornare dal re e riferirgli che lei non mi ha voluto ricevere! Non ne sarà affatto contento!… Il re la vuole assolutamente a corte entro la sera di domani!…”
“Il re mi vuole a corte?!… Ma che razza di pasticcio è questo?…”
D’un tratto la paura è sparita per lasciare il posto allo stupore misto a curiosità. Wagner si alza e si decide ad aprire la porta. Nella penombra del corridoio, davanti a lui compare un signore brizzolato in marsina nera. Una tipica faccia da imbrattacarte prezzolato con occhi stretti e due baffoni spioventi che assomigliano, pensa un po’, proprio a quelli di Nietzsche, altro gran figlio di buona donna.
Lo sconosciuto fa un passo avanti e chiede con compassata cortesia:
“Posso entrare, Herr Wagner?… O dobbiamo restare a discutere in corridoio?!”
Ancora spaesato e incredulo, Richard lo fa passare e quello avanza nella stanza guardandosi attorno con un sorriso malizioso. Gli basta uno sguardo per capire tutto, e non può fare a meno di sogghignare. Poi si ricompone e, con un tono assai compassato, si decide a svelare il mistero:
“Maestro,” ma c’è un velo di sarcasmo nel tono in cui lo dice; “permetta che mi presenti. Sono Franz Seraph von Pfistermeister, segretario personale di Sua Altezza Ludwig II, sovrano di Baviera, e sono venuto espressamente da Monaco per portarla a palazzo. Il re vuole assolutamente conoscerla e credo abbia intenzione di affidarle un importante carica, anche se io personalmente mi sono trovato in disaccordo con lui su quest’ultimo punto.”
Ma vedi un po’ che razza di babbuino! Piomba qui facendomi quasi pigliare un accidente, dice d’essere mandato dal re ma che lui, poverino, non è d’accordo su tutta la faccenda!…
Il maestro, piccato, non può far altro che rispondere:
“Capisco!… Ma cosa vuole il re da me?…”
“Probabilmente una sua opera!… Il re è giovane ed anche molto ingenuo. Dato il suo entusiasmo per la musica e le arti in generale, da vari mesi richiede con insistenza di conoscerla.”
Pfistermeister fa una pausa e poi mugugna:
“Anche se io l’ho ben messo in guardia sul fatto di non essere il solo a richiedere la sua presenza!… Mi risulta che la regia polizia nutra da tempo lo stesso desiderio.”
Wagner non sa cosa rispondere e quindi, paonazzo di rabbia, resta muto davanti al messaggero che gli reca la salvezza.
Il segretario del re è comunque un uomo di mondo, e capisce l’imbarazzo di Wagner:
“Suvvia, maestro, non s’offenda se le parlo a viso aperto. La vita non è facile per nessuno di questi tempi. Io credo comunque che lei potrà trarre grandi vantaggi dall’entusiasmo del re per la sua musica. Se saprà condursi convenientemente, lei presto potrà dimenticare tutte le ristrettezze della sua vita attuale. Non avrà più problemi di sorta!… Prepari il suo bagaglio, bisogna partire subito. Il re l’aspetta a palazzo!”

Poco dopo, nuovamente solo nella squallida stanza, Wagner rimugina ancora sbigottito su ciò che il messaggero gli ha rivelato. Il re di Baviera lo vuole a corte!… L’angelo della misericordia divina ha scorto la sua disperazione ed è giunto a recargli la salvezza sotto le vesti di quell’arcigno cortigiano. Di colpo rammenta il sogno in cui si trovava smarrito su un palcoscenico deserto, e il richiamo d’un corno gli ha annunciato l’arrivo d’un giovane in uniforme che lo interpellava dicendogli: Maestro, non abbia timore!
Questo, dunque, era il vero volto del destino? Fino ad oggi Wagner non sapeva nulla di Ludwig e certo non immaginava questo lieto fine per la sua tormentata vicenda. Di certo non sa che Ludwig cova in sé il germe della follia che lo porterà fatalmente al suicidio. Non sa nulla e non può fare altro che seguire il suo destino. Forse ci voleva un re folle perché i grandiosi sogni musicali del piccolo uomo infelice e fuggitivo potessero prendere vita e consegnare il suo nome alla storia. Forse ognuno di noi, lungo l’incerto cammino, finisce sempre per incontrare sé stesso.