Tra buio e luce, preferisco gli infrarossi! di Tommaso Occhiogrosso

Tutto a un tratto, mi ritrovo a fare i conti col futuro: è di quelle occasioni nelle quali sollevi sempre un po’ la testa, cercando più in alto delle tue possibilità, una risposta per una domanda nemmeno tanto ben definita.

Chissà per quale strana associazione di idee, ripenso ai miei anni in seminario.
Erano giorni quelli, nei quali “farò”, “sarò”, “diventerò”, erano tempi talmente presenti nelle volontà, che ci scordavamo persino che giorno fosse quello che stavamo vivendo. Nelle chiacchierate con gli amici, sognavamo uno spazio ipotetico nel quale realizzare forme future a nostra immagine e desiderio, come accendere una lampadina.
Ciascuno coccolava il suo tempo futuro migliore, a suon di carezze.
Stringendo forte un cuscino.
Era di notte che i nostri sogni crescevano, nelle notti d’inverno , quando il calore di radiatori datati, emanava un intenso odore di caldo: lo annusavi per davvero e quasi quasi, ne eri assuefatto.
Solo di notte potevamo confidarci: al sorgere del sole, c’era da allestire le faccende quotidiane con gli abiti che meglio riuscivamo ad indossare.
Impegni. Doveri. Responsabilità.
Vivere in gruppo, in quegli anni, mi ha fatto comprendere per esempio quante paia di scarpe possano calpestare una superficie di tre metri quadrati, contemporaneamente. E come evitare di calpestar piedi.
Il rispetto.
Sgomitare per farsi posto, non è stata mai una disciplina per la quale ho prestato le forze: volentieri giravo i tacchi e mi isolavo.
A furia di girar tacchi, ho consumato le suole e son rimasto a piedi nudi.
Trovato sollievo sotto le lenzuola. Calore per piante di sagome calpestate. I miei passi erano la somma di battute di arresto e sospensioni in punta di piedi. Bisognava che trovassi rimedio, altrimenti restavo indietro. Dovevo trovare il modo per curarmi, perché spesso ero battuto.
Precisamente, schiaffeggiato.
Al buio, mi riscaldavo, curavo le ferite e a volte, segnavo le guance di lacrime.
Sono stato educato dai miei, a temere la luce, perché ciò che riuscivo a vedere chiaramente, era solo ciò che volevano mostrarmi.
«Non è dei morti che devi aver paura. Dei vivi, piuttosto. Quelli sì, sono cattivi!».
Ricordo il primo tentennamento nella cappella buia di un cimitero. Mio padre mi teneva per mano ed io, opponevo resistenza.
Piantavo i piedi.
“Avanti. Stanno solo dormendo … anzi, non far troppo rumore!”.
L’idea di defunti che dormivano, acquietò i timori.
Anche perché compresi che il buio era un fatto oggettivo. Il male, la cattiveria invece, soggettivo. E di argomenti del genere, solo gli umani ‘viventi’, ne potevano esser capaci. Il buio, dunque, era fatto per il riposo. Il giorno per l’azione. E per la difesa.

Soluzioni temporanee dell’agire, hanno garantito giorni di sole di legittima difesa. E notti di sogni e coccole. Un buio grazie al quale, ho imparato ad aprir la mente, a vivere di sogni e respingere ogni offesa con le unghie e i salti pindarici della fantasia. Ha agevolato anche le mie espressioni. E impressioni. A reagire, persino a dolorosi schiaffoni.
Nel buio rallento il tempo e analizzo l’uomo: lo vedo immerso nelle tenebre e palpeggiare pareti, in preda a smarrimento. Perché al buio, si è sempre se stessi, non si indossano abiti e maschere e non si finge nemmeno alla propria coscienza: come guardare attraverso gli infrarossi.
Come cercare nel cuor della notte di non svegliare la casa, col passo delicato. È l’immagine che preferisco, il compromesso perfetto: rispetto per il prossimo, ricerca decisa della propria sete.