La parte più celata di Angelo Francesco Anfuso

(…) Avevo circa ventuno anni, quando quella grigia mattina, mi recavo come al solito all’Università. Giorno grigio, avvolto dalla densa nebbia novembrina che avvolgeva come un candido manto gli aranceti della vasta pianura, sfiorando a malapena le pendici dei Monti Iblei.
Ricordo il viaggio in pullman, l’odore della tappezzeria dei sedili, un po’ scomodi ma sempre meglio di quei treni maleodoranti, dall’odore agre, e dai sedili in pelle che trasudavano aromi sconcertanti.

Tra una musicassetta e un libro, finalmente arrivo in Facoltà e subito mi precipitai nell’aula dove mi aspettava una meritevole lezione di Filosofia Medievale.
Beh! Che dire, non bastava il giorno grigio, anche la lezione sui trascendentali dell’Essere in Tommaso d’Aquino.

“Oh, no! Iniziamo bene!” Pensai. “Ma proprio oggi, noooo!”

Non feci nemmeno in tempo di sistemarmi che mi sentii leggermente osservato da due matricole, che con molto garbo mi puntarono gli occhi come se fossi un Trascendentale fatto carne.
In effetti, non avevano torto, visto che io nel mio modo di vestire ho sempre cercato di essere unico nel mio genere, GLAMOUR per eccellenza e andare a passo con la moda e sinceramente parlando non tutti all’epoca erano in grado di andare a passo con le tendenze: anzi, molto molto …

Dopo la lezione, come da rito, mi precipitai al bar della Facoltà, c’era freddo, e come al solito latte caldo macchiato e biscotti.
Mi sedetti al solito tavolo, vicino la finestra che dava sul chiostro, si proprio chiostro perché la Facoltà sorge all’interno di un ex Monastero: che bellezza!

Ero un po’ assopito dai miei appunti, in effetti mi ero destato dal sonno alle cinque del mattino, e mi ritrovai davanti un ragazzo che mi fissava con meritevole devozione.
In quel momento non feci caso più di tanto a chi entrava o usciva dal bar, poi le mie palpebre si cullavano tra una pagina e l’altra, tanta era la stanchezza che figuriamoci non avevo visto il ragazzo che mi piantonava.
Mi sorrise e mi disse: “ciao, come stai?” ed io dissi a me stesso “ ma che vuole sto’ tipo”
E lui: “ci siamo conosciuti quando abbiamo fatto l’esame di Antropologia Filosofica, ricordi?”
In quel momento restai attonito, sorpreso dalla sua affermazione.
Cercai di ricordarmelo, ma sinceramente non mi ricordava nulla. “Boh!” esclamai.
Da buon galante lo invitai a sedersi e a consumare qualcosa, e lui accettò, senza farselo dire due volte.

Iniziammo a parlare del più e del meno, in un certo senso mi piaceva il suo modo di parlare, molto fine, raffinato, lui tra l’altro era di bell’aspetto, una statua di Fidia vagante.
Mi lasciai trasportare dalla sua voce e dai suoi occhi, ovviamente con dovuto rispetto,
ma non so’ cosa mi sia successo, ad un certo punto iniziai a vagare con la mia mente verso luoghi e parti del suo corpo a dir poco proibiti.

Ahimè, che fatidico desiderio è il mio!
Avrei fatto di tutto, per concedermi alle sue braccia, per avvolgermi a lui come il serpente genesiaco.
Lo desideravo più di ogni altra cosa, in me si era innescata una voglia, una brama di lussuria così ardente, che la fiamma ossidrica dell’accendino a confronto era un misero raggio di luce.
Mi sarei venduto l’anima al diavolo, tanto era quel nobile piacere che mi aveva fatto scaturire, dalla parte più intima, tanto oscura ma preziosa della mia persona.
Ad un certo punto, la mia trascendenza svanì nel nulla, interrotta da uno sconosciuto che troncò quell’elevazione paradisiaca per una misera sigaretta.

“Ma vaffanculo, vedi questo stronzo” dissi in cuor mio, “non poteva andare da un altro?”

Finita l’estasi, il mio desiderato sconosciuto si alzò dalla sedia, dicendomi che doveva andare in bagnoe poi nel chiestro per fumarsi una sigaretta.
Gli diedi solo il tempo materiale di varcare la porta del bar che subito mi precipitai come un segugio sulle sue orme.
Arrivai in nel chiostr, era lì, non c’era nessuno.
Stava fumando, disteso sul prato, come se fosse casa sua, ed io conn molta indifferenza mi avvicinai.
Ero troppo preso dal desiderio, avevo troppa voglia, mi sdraiai e mi abbandonai a lui.
“Afferrami” gli gridavo all’orecchio, con voce prepotente e tremante, magari per la paura di essere scoperti.
Mi sentivo Ganimede tra gli artigli di Zeus, pronto a gustare il prezioso nettare divino.
Furono attimi infiniti, ma effimeri nello stesso tempo.
Restammo ancora un po’ distesi sull’erba come se non fosse successo nulla.
Dopo aver toccato l’apice del piacere, uscii e mi recai in bagno.
Mi specchiavo, ma non mi riconoscevo in quel riflesso, “che meschino che sono” dissi ad altra voce.
Solo dopo che uscii dalla Facoltà, ritornai veramentein me stesso, cercando di celare quella parte oscura (anche se mi sentivo felicemente soddisfatto).
Però! (…)