Il quadro perfetto di Barbara Villa Mastropierro e Tommaso Occhiogrosso

Di due parti che si incontrano, c’è sempre un limite esterno che deve combaciare.
O al massimo, occorre la mano maldestra di un buon artigiano. E questo sono io che provo a raccontarvi la storia di Tito e Morgana.

Morgana aveva perso la sua fermata, troppo incantata a guardare la copertina di quel libro: Poesie d’amore e di vita – Pablo Neruda. E non solo. Dalla copertina era salita con lo sguardo. Le mani, le spalle e poi quel viso, perso tra quelle pagine.
Era rimasta folgorata. Letteralmente folgorata.
Ormai aveva perso il tempo di sgattaiolare oltre la calca di impiegati e tuffarsi nella sua giornata di lavoro, ormai il ritardo era conclamato. Aveva deciso , in quell’istante, che quel giorno in ufficio non si sarebbe presentata. Aveva altro da fare, pensò tra sé e sorrise. L’autobus dopo poco piantò le ruote e scosse come una ola involontaria tutti quegli impiegati appesi in cravatta e sospesi alle maniglie rosse. Il giovane lettore scese e Morgana lo seguì. Aveva deciso di incollarsi a quegli abiti e immobilizzarli: voleva sapere chi era quel tipo che li vestiva. Morgana non era donna che perdeva tempo: quando voleva qualcosa se la prendeva. Quel giorno voleva sapere chi fosse quel tipo. Per ora era l’uomo affascinante e misterioso, ma ben presto avrebbe saputo molto di più, anzi tutto.

«Tito!».
Una voce dall’altra parte della strada, richiamò l’attenzione del giovane.
«Non girarti!» pregò Morgana «non puoi avere un nome così orrendo!».
«Ehi, Momo!».
“Meglio Tito, santa miseria!” pensò Morgana.

«Tito, ma che razza di nome è Momo?!».
«Dici a me?!».
Tito si voltò e vide, nella confusione dei passanti, una brunetta niente male, che gli stava addosso.
«Eh, certo: vedi qualcun altro su questa strada che si chiama come te e urla il nome del tuo amico?!».
Tito entrò in confusione.
«Ah, già … certo … chi altrimenti! Dunque, lui è Momo, ma non si chiama Momo, lo chiamo io così perché è un idiota e Momo mi da’ tanto di idiota … a te, non da’ di idiota?!».
«Dovrebbe!?» rispose Morgana quasi seccata.
«Beh, sì! È una mia invenzione …».
«… da idiota!».
«Certo, non nego che potrebbe sembrare alquanto strano, perché è un nome così infantile che a sentirlo pronunciare uno penserebbe a un cartone animato, una scatola di giochi, quelle plastiline con cui ci si impiastricciava da piccoli e … Ma scusa un attimo … tu chi sei?!».
Morgana tirò un sospiro.
«Pfui! Woo! E che diamine! Ce l’hai fatta a dire una cosa sensata … non mi sembrava possibile che parlassi sul serio!».
Tito si distrasse un attimo. Aveva perso il segno dell’orecchio nel libro di Neruda e cercava di recuperarlo in qualche modo.
«Ma mi ascolti?!».
«Sì certo … scusa … è che se non trovo il segno dell’orecchio, mi tocca ricominciare a leggere tutto da capo! Dicevi ?!».
«Oh mio dio! Non è possibile?! Ma sei davvero così per tutto il resto della giornata?!».
Tito abbassò la testa e lanciò uno sguardo nel vuoto.
«No. Solo quando mi piace una ragazza …».
Morgana restò di stucco. Poi un po’ sorrise.
«Cioè, se dico che mi piace, intendo mipiacemipiacemipiace …».
Morgana gli tappò la bocca e schioccò un bacio sul dorso della sua mano incollata alle sue labbra.
«Piacere, Morgana!».

Questo l’inizio. Tre mesi fa. Ora, le due parti combaciano, sono vicine. Ma anche labili. Adesso per esempio, sono talmente vicine, da sovrapporsi. Una sull’altra, e la convivenza evidenzia i limiti: quei contorni di ciascuno che non combaceranno mai. Come insenature frastagliate.

Si è dimenticato. Lo sento, lo sento. Doveva essere qui per le 21, dovevamo cenare insieme, avremmo dovuto discutere di quella faccenda importante. Ma che parlo a fare! Avrà avuto di meglio da fare. C’è sempre qualcosa di più importante … più importante di me.

«Oh finalmente ti sei degnato di tornare a casa. Dove sei stato? Con chi eri?».
«A scuola. C’era una riunione straordinaria».
«Sì certo, e io sulla fronte ci ho scritto Sali e Tabacchi».
«Io non lo so cosa hai sulla fronte. E tra l’altro non ci starebbe nemmeno una scritta così lunga sulla tua fronte! Però, so solo che sei fissata. Sono settimane che ormai non fai altro che dubitare di me, di pensare che ho un’altra e follie simili. Dimmi che ti succede?».

Prima o poi sarebbero arrivati a questo. Un punto fisso.

«Succede che non ci sei mai. Succede che la mattina faccio colazione sola, che il bacio del buongiorno me lo do da sola. E succede anche che io domani parto per Parigi. Ecco cosa succede».

A bocca aperta.
«Cosa? Perché? Con chi?».
«Ma che domande stupide. Da sola ovvio. Mi hanno organizzato una mostra a Parigi e non posso non andare. E’ il mio sogno da sempre. Ci saranno esposti i miei quadri».

Silenzio.
«Tu mi nascondi qualcosa. Chi ti aspetta a Parigi?».
«Tu sei pazzo. Tu hai occhi solo per le tue poesie, i tuoi poeti maledetti, le tue allieve! E poi sono io a nascondere qualcosa?».

Morgana si allontanò a passo svelto, sparì nel buio del corridoio e rientrò con una tela coperta. L’appoggiò sul cavalletto e fece scivolare il lenzuolo. Una bella immagine comparve agli occhi Tito. Lui, l’allieva carina e i loro corpi nudi.
In un attimo scese il gelo. Un silenzio irreale.

«E adesso non parli più? Ho le fisse e sono paranoica vero?».
«No, tu sei pazza. Ci hai dipinti senza chiederci il permesso. Non sai che c’è la privacy?».
«La …. cosa?!! Ma che dici? Tu mi hai tradito e io dovrei preoccuparmi della privacy?».
«E tu sei stata tutto il tempo a guardarci? E ti sembra normale?».
«Avrei dovuto uccidervi? Subito? No.. troppo facile, troppo stupido».
Tito nascose il silenzio sotto il lenzuolo della vergogna. Chi aveva perdonato cosa, non era importante.
L’essenziale era impastato tra quei colori.
Una leggerezza dei primi giorni, quando una storia è solo alle prime pagine. Quando soprattutto una vecchia, non trova mai il capitolo finale.

«Voi mi regalerete il successo. E sarete visti da tutti, da tutto il mondo. Voi sarete il mio quadro perfetto».
«Il chiodo fisso del tradimento non te lo sai mai tolto, vero?! Te lo sei piantato nella testa e in quelle mani: Tito tradisce sempre e comunque; Tito è uno sbadato; Tito ha sempre la testa fra le nuvole e tra le gambe delle allieve. Questa è la migliore immagine che porterai dipinta di me?!».
Strappò la tela dalle mani di Morgana e l’appese nel “l’angolo delle meraviglie”, una nicchia ricavata in una zona morta della casa, un’edicola alta due metri e coronata da pietra viva e illuminata da un faro piantato nel soffitto. Campeggiava al centro un affilato chiodo grezzo.
Morgana l’ammirò stupita, quasi non fosse opera sua.
«Non trovi che sia perfetto? Il punto di vista, la luce, gli sguardi appena abbozzati. Il desiderio infame. Un titolo che ci sta tutto!».
«È la tua opera migliore, vero!?».
Morgana lo trafisse per la prima volta con gli occhi.
«Che vuoi dire?!».
«Cosa ti riempie di follia?! Il dipinto o il soggetto. L’arte o il peccato?».
«Entrambi. È la convivenza che si mescola. È il confondersi di pennelli e carni».

Tito sparì in cucina. Aveva fame.
Morgana lo biasimò non poco. Tutta quella discussione, tutte quelle provocazioni e un nulla di fatto. Avrebbe voluto una reazione, uno scontro, una lite furibonda per stanare le paure. Le sue. E per ritornare ad accettare e amare quell’essere che abitava non solo la sua casa, ma una parte intima di sé.
Si accasciò sul divano, sfatta. Era stanca: tanta fatica per nulla.
Nel silenzio, un fendente recise la follia.
L’arte e il peccato. Il desiderio infame.

«Maledetto quadro!!!».
La mano violenta di Tito, colpì a più riprese la tela. La squarciò nei punti nevralgici, negli incroci peccaminosi, nelle sfumature definite dalla libidine. Si riempì di stracci, quell’impasto di colori e desiderio.
«Idiota! Che fai??!».
Morgana si scaraventò contro Tito. Nella foga della disperazione, la tela cadde al suolo, come vittima sacrificale, come un cadavere ormai privo di vita. Tito la calpestò, tenendo ben salde le mani di Morgana che si dimenavano. Avrebbe voluto dipingergli sul volto una maschera di sangue, assalirlo con la rabbia e sputargli in faccia il suo disprezzo.
«Tu sei pazza!».
L’estremo tentativo di Morgana, andò a segno. E lo trafisse per la seconda volta.
E trafisse anche sé.
Quanto primeggiava quel chiodo! Al centro della nicchia, come un aculeo spesso, lungo cinque centimetri, nero. Un chiodo d’altri tempi, una breve bellezza in ferro grezzo. Il centro della gravità, l’ancora perfetta per i dipinti di Morgana.
E vide le loro mani affondare. Sentì le loro carni lacerarsi.
Nell’impatto violento, due urla tacquero l’odio.

Ora sono vicini, sento il loro respiro. I loro corpi sudano veleno e odio. Scivola sangue.
Sapevo che sarebbero arrivati a questo punto, in questa zona, in quest’angolo delle meraviglie dove tutto è così bello perché nasconde un segreto. Ed io lo mostro, lo sostengo, ne reggo i limiti.
Tante pareti, immensi spazi colorati, strutture ben illuminate. Ma senza un appoggio, sarebbero zone morte. Mura e angoli prendono vita così. Basta un chiodo: una base incastrata nel cuore del cemento che mantenga il gioco. Equilibri nascosti, parti che non devono coincidere, ma affondare.
Tito e Morgana combattono per un pezzo di vita frastagliata. Se non entreranno nei loro limiti, cadranno a terra, come quella tela. E spero che accada un miracolo.
Un chiodo fisso: il tradimento. Morgana
Un altro chiodo fisso: il perdono mancato, per se stessi. Tito.
E poi ci sono io: il vero chiodo che ha visto ogni cosa, ha sorretto arte e peccato, Tito e Morgana.
Restare sospesi garantisce inevitabilmente un panorama pericoloso: cadere o aggrapparsi.
Ho trafitto le mani di entrambi, quasi per gioco. Quasi per destino.
Di due parti che si incontrano, c’è sempre un limite esterno che deve combaciare.
O al massimo, occorrono le mani.
Toccarsi per riconoscersi. Mani trapassate allo stesso istante, dallo stesso dolore, vedono la vita nello stesso modo. E cercano la stessa via d’uscita.
Magari è l’occasione giusta. Magari questo, è il quadro perfetto.