Tratto da “Il Perdono” di Irma Panova Maino

Corse a casa trattenendo a stento il fiatone.
L’eccitazione le illuminava gli occhi nocciola, rendendoli ancora più chiari, quasi ambrati.
Maledì le chiavi di casa che si rifiutavano di collaborare, facendole perdere tempo prezioso e si ritrovò a borbottare delle imprecazioni fra i denti quando le caddero di mano, costringendola a chinarsi in equilibrio precario con tutti quei pacchi che stringeva fra le braccia.
Il loro anniversario. Questo era quello che la rendeva così frenetica. Soprattutto dal momento che era il primo.
Fece un lungo respiro per calmarsi, osservando con astio la porta di casa, la quale in quel momento sembrava il portone blindato di Fort Knox. Appoggiò a terra i pacchi e con grazia si chinò nuovamente, riuscendo questa volta ad afferrare quelle maledette chiavi, diventate improvvisamente docili. Sorrise soddisfatta a quei pezzi di metallo che aveva in mano, sfidandoli a ricominciare a eludere la serratura, come se fossero stati animati di vita propria. Quando varcò la soglia emise un sospiro riconoscente al suo autocontrollo e, dirigendosi prontamente verso la cucina, prese per l’ennesima volta in esame i piani per la serata. Voleva che fosse tutto perfetto. Paul meritava che fosse tutto perfetto, dal momento che l’aveva sopportata per un anno intero, rendendola la donna più felice del mondo.
Aveva incontrato quell’uomo a una festa di amici e fra loro era scoccata una scintilla istantanea, un misto di emozioni era passato da uno sguardo all’altro, comunicandosi un muto riconoscimento primordiale. Era stato come se fra loro fosse immediatamente corsa la consapevolezza di essere le due metà di un intero diviso da troppo tempo, due calamite i cui poli, uno positivo e l’altro negativo, si erano attratte inesorabilmente portandoli l’uno verso l’altra, dimenticando il mondo che in quel momento li circondava.
Tutto questo era accaduto un anno prima e per trecentosessantacinque giorni avevano vissuto in un limbo di continua, stupefacente felicità.
Predispose la cena e corse sotto la doccia brontolando per l’ora che si era fatta tarda, lui sarebbe arrivato entro la prossima mezz’ora e lei era ancora in condizioni pietose. Per quanto si fosse mossa velocemente fra la camera da letto e la stanza da bagno, lo squillo del citofono la colse di sorpresa, si allacciò l’accappatoio finendo per sorridere di fronte a quel gesto ridicolo, quante volte l’aveva già vista nuda?
Il sesso … Si rese conto di sentirsi già eccitata quando arrivò alla porta e la chiave questa volta ruotò senza proteste nella serratura, dandole modo di aprire prima ancora che l’ascensore fosse arrivato al piano. Osservò la sua camminata fluida, quasi felina, il suo modo d’incedere sempre rilassato e sicuro e pensò con un brivido che quell’uomo era suo.
I corti capelli castani chiari, il ciuffo ribelle che gli finiva sempre sugli occhi, le labbra morbide e piene su una bocca sensuale capace di cose strabilianti; gli occhi di quel colore così scuro da sembrare superfici lisce e lucide, nelle quali il mondo pareva riflettersi
Tutto era suo, compreso il corpo statuario da Bronzo di Riace, senza tuttavia avere la fastidiosa particolarità delle originali dimensioni dell’organo sessuale. Il suo Bronzo di Riace era incredibilmente dotato e sapeva utilizzare ogni centimetro di quel ben di Dio in modo sublime. Tremò ancora al pensiero, pregustando la conclusione della serata, lui non l’aveva mai delusa in tal senso, non si era dimostrato sazio di lei nemmeno dopo un lungo week-end di sfrenata follia.
Fin troppo bello per essere vero. Eppure era reale, così come erano reali le labbra che si chinarono per sfiorare le sue e le mani che scesero per spingerla delicatamente dentro casa.
Udì a malapena lo scatto della porta che veniva richiusa dietro di loro. Avvertì solamente il momento in cui le mani scesero a sciogliere il nodo della cintura dell’accappatoio, con il chiaro intento di denudarla in anticamera. Un risolino eccitato le sfuggì mentre inclinava la testa all’indietro, lasciandogli un accesso totale alla pelle sensibile della gola.
“Sei bellissima questa sera…” il sussurro roco le giunse all’orecchio fra un sospiro e l’altro, facendola ulteriormente fremere. Era incredibile quello che riuscisse a fare usando semplicemente le tonalità della sua voce bassa e calda, adatta a interpretare canzoni della cosiddetta cultura musicale nera.
La sospinse verso la zona pranzo, posta in un angolo del soggiorno, continuando a baciarla, leccandole e stuzzicandole la pelle in ogni modo, rendendola talmente sensibile al suo tocco da farla sospirare in continuazione. I lunghi capelli castani, di qualche tonalità più scuri di quelli di lui, le accarezzarono la schiena mentre veniva fatta appoggiare al bordo del tavolo sul quale avrebbero dovuto cenare.
“E’ una fortuna che io non abbia ancora apparecchiato” riuscì a dirgli, rendendosi conto che la stava sollevando per adagiarla sul bordo freddo di legno massiccio.
“Già, è proprio una fortuna” le rispose di rimando sostenendola con una mano, mentre con l’altra scendeva in una languida carezza dal seno fino al fianco. “…proprio una fortuna” aggiunse prima di chinarsi a succhiarle un capezzolo. Sospirò soddisfatta davanti a quella presa decisa e stimolante.
La cena poteva pure bruciare per quel che le importava in quel momento, nulla l’avrebbe distolta dalle sensazioni inebrianti che lui riusciva a provocare sul suo corpo, semplicemente usando le mani e le labbra.
“Non pensavo che tu fossi così affamato.” la battuta le sfuggì involontariamente, pensando al fatto che solo la sera prima avevano eseguito una performance degna di un film porno.
“Tu non immagini quanto.” Il tono ancora più basso le strappò un brivido e per la prima volta in un anno di sesso fantastico, il suo cervello reagì in modo inconsueto.
L’istinto scattò allarmato inducendola a riaprire gli occhi, come a volersi accertare che fosse realmente in casa sua e che l’uomo che la sovrastava, con la sua imponente prestanza fisica, fosse realmente colui che l’aveva portata oltre i limiti dell’estasi in quei trecentosessantacinque giorni. Spalancò gli occhi di fronte alla sua espressione enigmatica, dimenticandosi per un momento il motivo per il quale si trovassero semi distesi sul tavolo da pranzo. La lenta penetrazione la colse di sorpresa, non si era accorta che si era slacciato i calzoni e che era già pronto per un’altra sessione di sesso infuocato.
Non si era accorta di niente. La sua concentrazione era stata assorbita dai suoi occhi, da quello che improvvisamente aveva scorto nelle loro profondità. L’invasione improvvisa la scosse da quella sorta d’immobilità che l’aveva colta nel momento in cui i suoi sensi erano scattati in stato d’allarme, inducendola a reagire. Ma la sua non fu una reazione istintiva all’accoppiamento: il lasciarsi andare alle sensazioni elettriche che le procuravano i loro corpi sfregandosi, prendendosi e lasciandosi, per poi riprendersi di nuovo.
Fu un terrore atavico, quello che la spinse a ribellarsi, a cercare di sfuggire alla sua presa, al suo tenerla inchiodata contro la superficie lignea del tavolo.
“Lasciami …” non sembrava nemmeno sua, la voce che le orecchie udirono in quel momento. Il miagolio con cui pronunciò quell’unica parola, assomigliava più al verso di un animale impaurito, piuttosto che al timbro di un essere umano.
“Non posso Nicole…”
“Ti prego…”
“Mi dispiace Nicole… mi dispiace tanto.” la risposta di lui la lasciò senza fiato e la spinta che le diede, per affondare maggiormente nel suo corpo, contribuì a farle perdere del tutto il respiro. Il dolore le esplose nella spina dorsale, assorbendo il colpo. Era solo una sua impressione, oppure lo sentiva più grosso? Più invasivo?
Forse era la paura a darle quella sensazione.
Ma non fu solo un’impressione la fitta che avvertì ai fianchi, quando le mani di lui le artigliarono la carne per impedirle di sfuggirgli. Così come non fu solo un’impressione la lenta metamorfosi che subì quel corpo che credeva di conoscere così bene, che l’aveva fatta sentire al sicuro fra le sue braccia.
Non riuscì ad urlare davanti alla pelle che si trasformò in scaglie, alle mani che divennero artigli e a quel viso i cui lineamenti vennero stravolti da qualcosa di bestiale, d’impossibile.
Rimase attonita nel rendersi conto che l’essere che la stava possedendo, non poteva essere umano. Nessun uomo avrebbe potuto avere le iridi ristrette in una linea sottile e verticale, di un colore così dorato da emanare scintille ogni volta che veniva colpito dalla luce della lampada. Nessun uomo avrebbe potuto avere quelle zanne acuminate che gli ornavano la bocca, arrivando a ferirgli le labbra che lei aveva giudicato così sensuali, così ricche di promesse.
Impossibile negarlo ancora, impossibile negare l’evidenza: la realtà l’aveva sotto gli occhi e non era rassicurante. Quello era un mostro e mostruosa era l’erezione che avvertiva lacerarle la carne, straziarle i tessuti.
La mano che piombò sul suo volto per impedirle di urlare, finì per penetrarle la carne del viso, lasciando solchi insanguinati laddove le punte degli artigli perforarono la pelle.
L’orrore la invase, il panico finì per soffocare ogni istinto razionale, lasciando solo una vaga reattività animale: la necessità di riuscire a sopravvivere nonostante tutto. Il cervello si chiuse nel tentativo di proteggere la mente da quanto stava accadendo, bloccando i terminali nervosi sovraccaricati dal dolore.
Dolore e sofferenza. Continue e costanti.
Gli occhi le si appannarono rivoltandosi all’indietro e lei scivolò in una sorta di coma liberatorio, in cui zanne e artigli non potevano raggiungerla. Scivolò via sotto le spinte implacabili, via dal sangue che si riversava copioso sul tavolo, rendendolo viscido.
L’ultima cosa che riuscì a sentire, prima di perdere completamente i sensi, fu la voce di lui, sussurrale sibilando, che non era ancora finita.