Nella terra parlante di Denis Cornacchia

La solita metro, tutte le mattine all’apertura che guarda la città dal basso, ignara di quella luce che coinvolge ogni mattone di marciapiede, l’asfalto bollente ne è testimone e le radici profonde degli alberi di viali caotici che sprofondano sempre più alla ricerca dell’acqua contro lo spossamento di cemento. Quel capolinea d’oltre tempo, impregnato di passato, male odorante, vapori di città che filtrano da tubazioni che si sgretolano nei vecchi impianti sotterranei. Di sera sembra di vivere nella nebbia lungo i classici ponti che attraversano i fiumi di metropoli dirette verso un futuro finito, nel caos senza ritorno. Quando piove, l’acqua si ripercuote nei tunnel di corsa dei convogli elettrici, come fantasmi le gocce vitali accompagnano i viaggianti in un tam tam armonioso che sembra quasi di stare nelle giungle esotiche; immagini interrotte da una realtà fanatica e spiritualmente avara. Come catacomba, l’androne è surreale, ma rivestito di quadri antichi che cercano occhi indiscreti, quasi ad offendersi se nessuno li scorge, e svuotato l’atrio di marmo si ribella al silenzio con i suoi ritmi notturni che minacciano entità nascoste. Diversi ospiti canori si dibattono tra loro cercando un trono che non c’è, dai rumori di tram secchioni che sempre agli stessi orari irrompono nel silenzio sotterraneo, quasi a dichiararsi ostili in un campo sportivo senza tribuna, e i classici rumori di ritorno di provenienza ignota che condiscono di plasma horror quasi opprimente, l’atmosfera sotterranea. E nella notte giù alla fermata principale, chiusi i cancelli d’entrate, inizia il bivacco solitario senza fuochi, solo bisbiglii di gente invisibile che cerca un po’ di riposo e di pace senza intenzione, e tutto comunica con un mondo sbagliato ma protettore, mentre l’eco si perde nell’ombra del buio infinito. E tutto ricomincia da capo, giù alla fermata, all’alba dei sogni perduti.