La Metro di Anna Ciraci

la Metro

Il cielo era coperto da nubi grigie dall’aria minacciosa, aggrovigliate fra loro come se si stessero organizzando a un attacco globale, pronte a inghiottire il mondo che al di sotto le stava guardando.
D’improvviso mi avvolse un vento gelido pungente proprio intorno alle cosce coperte soltanto da quel nero setoso di calze velate, mi strinsi più dentro il cappotto sperando di riuscire ad avere un po’ più di conforto ma il freddo premeva sopra le gambe quasi come volesse intromettersi sfacciato.
I piedi infilati in quelle tenaglie dal tacco a spillo avevano già smesso di farsi sentire da almeno mezz’ora ormai erano come dei blocchi pesanti come cemento da trascinarsi dietro: “Avrei fatto meglio a metterle nello zaino ste scarpe come hanno fatto Rachele ed Elsa!” Pensai tra me e me mentre guardavo più avanti Rachele che si stava ruffianando con Marco. Stavo rimanendo indietro e sembrava che a nessuno importasse. Elsa era tutta intenta a chiacchierare con Patric, il francese a “cottimo”. Lo chiamavamo così perché aveva partecipato allo scambio alla pari con Elsa per venire in Italia e invece di imparare il nostro modo di vivere passava il suo tempo a far tutte le commissioni che i suoi genitori gli davano da svolgere, l’unico suo momento di respiro era quando doveva studiare, poverino, oggi era un’eccezione quella di poter finalmente passare la giornata nel reale mondo degli adolescenti, insieme a noi.
Più avanti ancora c’era Claudio con Sandro che facevano i soliti idioti facendosi i dispetti.
Claudio era l’assurdo motivo che mi aveva convinto a indossare queste scarpe prima del tempo e neppure se n’era accorto “Idiota!” lo strinsi fra i denti neanche sapendo a chi davvero lo stessi dicendo…

Era il 31 dicembre del 1990.
Avevamo attraversato tutta la città cambiando almeno quattro autobus, la destinazione finale doveva essere l’estrema periferia di Bologna, dove avremmo partecipato all’evento più maestoso di tutta Italia per chiudere alla grande l’anno, o almeno questo era ciò che aveva detto chi, sotto banco, a scuola, ci aveva rifilato i coupon. Il controllore, accortosi che non avevamo i biglietti del pulmino, ci aveva buttato fuori e ora non sapevamo neppure in che punto della città eravamo. Dispersi in aperta campagna dove tirava un’aria che sembrava volerci entrare fin nelle ossa e spappolarcele come punizione divina della scappatella non dichiarata.
E poi la pioggia…
Un diluvio vero e proprio come se di colpo un muro ci fosse precipitato addosso. Fredda gelata mi camminava la schiena e scendeva lungo le gambe facendomi percorrere da brividi inconsulti.
Fu allora che Claudio finalmente mi degnò di uno sguardo, mi raggiunse indietro e passò il suo braccio intorno alle mie spalle avvolgendomi con lui dentro il suo cappotto e tenendomi stretta. Quello si che fu di conforto!
Da sotto guardavo le mie scarpe nuove diventar calosce: “ Mia madre mi uccide” pensai mordendomi il labbro ma scansai subito quell’atroce pensiero rimandandolo al tempo dovuto, ora volevo solo assaporarmi il momento vicino a Claudio…
E intanto scrosciava a un tale punto che non si riusciva neppure a veder al di là di un passo.
Ci compattammo tutti preoccupati c’eravamo persi e nessuno sapeva dove eravamo: ognuno di noi aveva raccontato una versione diversa per il cenone di fine anno tutto per avere il consenso dai genitori per poter finalmente salutare insieme, per la prima volta, l’anno nuovo.
Due lumini infondo alla via sembravano chiamare la nostra attenzione. Oscillavano, offuscati dalla pioggia scrosciante, ad altezza d’uomo e parevano davvero mandare un segnale come fossero un faro tra la nebbia a indicare lo scoglio alle navi di passaggio e non potemmo che avanzare con passo veloce per poterlo raggiungere.
Era una struttura di colore rosso arrugginito, queste lanterne assicurate a due ganci oscillavano in balia del vento, illuminando un cartello di fortuna con la scritta Metro.
“Metro?” Lo dicemmo tutti insieme all’unisono e scoppiammo a ridere, forse più rincuorati che altro.
Seguimmo l’indicazione e ci trovammo difronte a una scala evanescente che scendeva in un corridoio grezzo privo di qualsiasi abbellimento, sembrava più una discesa dentro uno scavo, ma la pioggia non voleva cessare e il freddo ormai aveva già iniziato dentro le vene, il processo di assideramento così non ci pensammo e affrontammo la discesa.
Claudio mi stava ancora attaccato per paura che scivolassi e gli altri ci seguirono a ruota.
Di sotto appariva tutto come una normale fermata della metro a parte forse il fatto che non c’erano né treni né persone in attesa, nessuna biglietteria e neppure indicazioni per i binari, se non altro era calda, asciutto e illuminato.
“Male che vada, ragazzi, io ho la bottiglia, almeno brinderemo!” Disse Marco mostrando il bottiglione di Berlucchi che portava dentro lo zaino accompagnandosi con la sua solita risata blasfema che da sempre ci faceva scoppiare a ridere come dei bimbi che avevano appena fatto una marachella.
Poggiati gli zaini in un angolo, perlustrammo la zona. Tutto era lindo e pulito come se mai nessuno prima di allora ci avesse messo piede, nessuna scritta sui muri, nessuna panchina con assi mancanti, sembrava d’esser i primi ad aver messo piede in quella stazione, anche se nessuno pareva voler dar peso alla cosa.
Sandro, che era il burlone della compagnia, d’un tratto, si mise a correre verso Rachele e toccandola col dito disse ridendo: “Tua!” e poi scappò via, come faceva da bambino quando vedeva la figlia della sua vicina di casa che, a dir di tutti, portava iella. Rachele a sua volta, prestandosi al gioco, consegnò il suo fardello a Patric che, anche se non conosceva la vicina in questione allungò la mano verso Marco scaricando il suo possedimento, ovviamente Marco puntò il suo dito su di me ma non abbastanza in fretta da impedirmi di dire “Alimus! Fammi togliere le mie calosce almeno se no non vi prendo più”.
Ci fu un fuggi fuggi generale, chi toccava uno e poi toccava un altro era da un sacco di tempo che non ci divertivamo così, sempre tutti presi a dimostrar al mondo d’esser grandi senza poi esserlo mai abbastanza per far nulla. Giocammo, giocammo per ore senza neppure renderci conto che il tempo passava e stavamo bene, come non lo stavamo da chissà quanto!
Il primo ad arrendersi fu Marco sfiancato dalla corsa fuori programma, si sedette sulla panchina, lo seguì Rachele che gli si sedette vicino tornando di nuovo grande.
Claudio invece mi chiese di andare a fare una passeggiata.
Camminammo per non so quanto tempo in silenzio fino a trovare una panchina isolata ed ombrata. Mi baciò subito come se non avesse aspettato altro per tutta la sua vita, mi accarezzò il seno ed io lo lasciai fare, come se non ci fosse più altro da fare. Mi accarezzò le cosce che oramai erano fasciate solo di quel che restava del nero setoso ed io lo lasciai fare, lasciai salire la sua mano fin dove ancora nessuno era salito, e feci in modo che ci arrivasse ancora, perché aspettare non era più il tempo. Lo accarezzai anch’io sopra i jeans e sentii pulsare il suo volere e lui sentii il mio volere. Che senso aveva allora aspettare ancora? Mi prese, con dolcezza posandomi sopra di lui e finalmente ci unimmo. Così sfacciatamente, senza alcun timore, o remora o pudore, sopra un’apparente panchina pubblica alla fermata di una metro particolare. Facemmo l’amore per la prima volta entrambi e fu assolutamente e meravigliosamente naturale.
Quando ci unimmo agli altri, decidemmo di festeggiare la fine di quell’anno, anche se ancora non era ora. Stappammo il bottiglione e ci scambiammo tutti gli auguri, Claudio mi dette un bacio indimenticabile stringendomi la mano si avvicinò dicendomi che mi amava gli risposi: “Anch’io, Claudio, da sempre!” e poi brindammo a noi.
Fu una serata come se ne vivono poche nella vita…

La metro alla fine arrivò.
Ci mettemmo in fila per salire, un omino pelato e nero come la pece occupava quasi tutta la porta, ma nessuno di noi aveva voglia di parlare con lui per chiedergli di spostarsi. Per Primo salì Claudio, poi Sandro.
Poi fu il turno di Patric e salì anche Elsa, poi subito dietro anche Marco e Rachele, ma quando fu il mio turno, l’omino scuro si girò di scatto sussurrando a bassa voce: “No! Tu NO!”
Vidi solo sfrecciare la metro poi non vidi più niente, almeno fino a quando non mi svegliai…
Erano passati tre mesi dalla fuga segreta del nostro piccolo, grande gruppo.

In ospedale ritrovai mia madre con le lacrime agli occhi quando aprii i miei. Mio padre mi guardava senza proferir parola, e mio fratello quasi mi ruppe il polso (di nuovo) per saltarmi al collo ed abbracciarmi.
Solo molto tempo dopo mi raccontarono com’erano andate davvero le cose quel 31 dicembre del 1990.
Ci fu un acquazzone da paura quella sera uno di quelli capaci di allagar le cantine e render impercorribili le strade, tanto da non permettere ad un camion dal color rosso ruggine di fermarsi in tempo prima di travolgere sei ragazzi sul ciglio di una stradina di campagna priva del marciapiede.
Io ero rimasta indietro…